mercoledì 31 dicembre 2008

Musica, Circolo Pueblo e Vampire Weekend. La playlist immaginaria...


Uscito verso l’inizio dell’anno “Vampire Weekend”, album di debutto per un gruppo della Columbia University, è nato mescolando gli angoli più brillanti della musica indie con l’afro beat e la melodia pop. Non vedo disco migliore per concludere l’anno. Stupendo. Se non lo avete, cercate di rimediare quanto prima. Una meraviglia.

Naturalmente ho anche una playlist per i volenterosi. Una volta mettevo musica al Circolo Pueblo di C.so Palestro a Torino, ma i proprietari, appartengono a quella odiosa categoria di persone che dell’ipocrisia hanno fatto un’arte, in grado di protestare per i diritti umanitari in Birmania, ma lieti di fregarsene se una persona sta male a 50 metri da casa loro. La differenza in tutto è importante. Se un mondo diverso è possibile, persone tanto squallide non dovrebbero farne parte… sogni.

Happens to us all otherwise…
1. Killers “Shadowplay” (Control – Ost)
2. The Long Blondes “Guilt” (Couples)
3. Of Montreal “Wicked Wisdon” (Skeletal Lamping)
4. Vampire Weekend “Cape Cod Kwassa Kwassa” (Vampire Weekend)
5. Drive By-Truckers “3 Dimes Down” (Brighter than creation’s dark)
6. Okkervill River “Lost Coastlines” (The Stand In)
7. Death Vessel “Jitterakadie” (Nothing is precious enough)
8. Bound Stems “Happens To Us All Otherwise” (The family afloat)
9. Ryan Adams “Go easy” (Cardinology)
10. Cat Powers “Metal Heart” (Jukebox)

Queste canzoni non potete ascoltarle al Pueblo: dubito che posseggano gli originali… esiste la pirateria, è vero, e potrebbe essere [uso il condizionale: non esprimo un dato di fatto certo e visto più volte con i miei occhi] potrebbe essere certamente nello stile del locale... mah...
Ascolto "Vampire Weekend" e sorrido.
Le canzoni, i suoni, le parole mie o solo lette sono sempre per la mia ragazzina con i capelli rossi. Sempre.

lunedì 29 dicembre 2008

Nessuna verità – Body of Lies di Ridley Scott


In società ridotte allo sperpero e alla sovrabbondanza, il terrore è l’unica azione significativa. C’è troppo di tutto, più significati e messaggi di quanti ne possiamo usare in diecimila vite”.
Don DeLillo, Mao II, 1991.

Non esiste una visione in grado di cogliere tutte le sfumature delle azioni terroristiche: Body of Lies, rinuncia all’esistenza di una verità salvifica e intreccia la rete del racconto intorno a personaggi realistici. Russell Crowe, ingrigito e grasso, dirige le operazioni dell’Agenzia in Medioriente. Leonardo DiCaprio, barbuto e sudaticcio, è l’uomo sul campo.
Nessuna verità è un ritorno al cinema senza fiato corto. La storia viaggia oltre le inquadrature. Con un ritmo dettato da fotografia ed espressioni, prima ancora che da azioni e dialoghi. Ridley Scott mescola più volte le linee narrative. Intreccia. E’ un regista capace di assorbire umori e sensazioni, ribaltando tutte le emozioni sulla pellicola.
Inseguendo il capo di una rete terroristica tra Iraq e Giordania, lo spettatore può vedere la finzione. E la realtà. Più volte dopo le riprese cinematografiche, Scott passa all’uso di immagini di finti telegiornali per raccontare gli attentati. Prima la finzione, poi il secondo livello di finzione. Se si considera che anche nella storia il ricercato è braccato servendosi di un’ulteriore finzione, è facile capire quale grado di intelligenza raggiunga il racconto: Nessuna verità – Body of Lies è uno dei migliori film del 2008.

mercoledì 24 dicembre 2008

Il meglio del 2008 (e il peggio)

I criteri sono semplici: la pubblicazione, in Italia, nell'anno 2008.

Una buona annata, per brevità condenserò il meglio in 5 titoli:

1. Richard Powers, Il fabbricante di eco

2. Don DeLillo, L'uomo che cade

3. Junot Diaz, La breve e favolosa vita di Oscar Wao

4. Newton Thornburg, La strana vita di Cutter e Bone

5. David Leavitt, Il matematico indiano


Riguardo al peggio, fortunatamente, le scelte sono più semplici, perché ho letto pochi libri davvero orrendi, ma tra questi pochi spiccano:

1. Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi

2. Thomas R. Pearson, Breve storia di una piccola città

3. Patrick Fogli, Il tempo infranto

4. Anne Holt, Quello che ti meriti

5. Andrea Vitali, Dopo breve e penosa malattia


Il libro di Giordano, in particolare, si segnala per la sua assoluta inutilità. Anzi mi correggo, il volume è utile in quanto permette di capire qualcosa sui lettori: chi apprezza questo genere di spazzatura, della letteratura non capisce niente, o quasi.

sabato 20 dicembre 2008

Dopo lunga e penosa malattia di Andrea Vitali. La lingua cadavere.

Dopo lunga e penosa malattia”. Questo il titolo. Penosa, ma non lunga la narrazione di Andrea Vitali. “Il Lonati” medico condotto, come l’autore, è il protagonista di questo romanzetto. In pochi rapidi capitoli si dipana il mistero riguardante la morte del notaio Galimberti. Ambientato a Bellano sul Lago di Como, in novembre, il finto giallo di Andrea Vitali è contaminato dalla noia del clima, probabilmente.
La scrittura monocorde è il vessillo di una letteratura logora, lisa, simile a un vecchio maglione che non vorreste indossare e il cui ricordo avevate rimosso. “Dopo lunga e penosa malattia” ricicla poche idee, non siamo nel campo della sperimentazione. Il Vitali sposa una lingua cadaverica per raccontare una storia davvero penosa.
Un libro così lo frantumerei con una chiave inglese o una pinza… tanto per ricordare lo splendido romanzo di Andrea Cisi, “Cronache dalla Ditta”, ché la letteratura in Italia è viva e “vitale”, ma il mercato spesso illumina il peggio. Troppe volte il numero di copie vendute è un avviso ai naviganti: il segnale certo del pericolo.
Anche se il Vitali usa, in alcuni passaggi, assonanze e strutture ritmate che rimandano alla poesia, il risultato delude. “I profili delle montagne erano netti come denti incisivi”.
Il Vitali ha abborracciato un raccontino per Natale. L’editore ha aumentato il numero delle pagine: i capitoli di quindici righe non hanno altra spiegazione. In totale abbiamo 165 pagine ulteriormente gonfiate a 184. Una comoda misura per i regali natalizi. Il prezzo è contenuto come la prosa che deve vendere. Un’opera (od operazione) patetica.

venerdì 12 dicembre 2008

Italia De profundis di Giuseppe Genna. Il romanzo terminale

Genna esplora pulsioni e fantasie. Finge di fingere. Non finge e questo significa che i fatti sono veri o che i fatti sono inventati.
Italia De Profundis” è il romanzo allo stadio terminale. Niente può spingersi oltre. L’urlo si mescola ai rantoli. Più volte siamo di fronte a un corpo ribelle, la lingua strazia l’aria. Di piacere o di dolore. Eroina. Incontri sadomaso con Drag Queen. Eutanasia. Oppure MySpace di Rupert Murdoch. L’ultima abiezione prima del villaggio turistico a Cefalù nell’estate del 2007.
Il rumore delle parole sulla pagina si avvicina alla rasoiata. Dell’acqua o del metallo. Il sapore anche è metallico e salmastro: sodio cloruro allo 0,9% ed emoglobina.
Racconta se stesso Giuseppe Genna. Sfrutta il consiglio di un finto scrittore per scrivere veramente. Puntualizza e chiosa. L’anno è lo sventurato 2007. E tutti i momenti che lo hanno preceduto e lo seguono. Anche il gesto di leggere è “romanzo”. La struttura è lineare. Non capisco a chi voglia parlare. Eppure parla. Consumo una matita per prendere appunti (in realtà poca grafite). Diamante e grafite, entrambi di carbonio. Cambiano legami e struttura. Cambia tutto.
Le parole. Le lettere. La punteggiatura. Il romanzo si aggroviglia e sembra in pieno deragliamento. Rimastica i frammenti della lingua. Affonda nelle “misinterpretazioni”. Si affida alla disintossicazione come principio di realtà. “La disintossicazione, non la fruizione di sostanze, è l’espansione della coscienza”.
Genna traccia una strada. Brucia le tracce. E la “pirosi ultima” di cui parla più volte. Più volte prima che si manifesti realmente.
La ragnatela dei collegamenti è un’immagine impressa sulla retina. Esiste nella memoria delle sinapsi. S’incrocia nel chiasma ottico. Il lettore si perde. Si deve perdere, come per la disintossicazione, per acquistare senso, un livello di attenzione maggiore.
E’ tutto finito. E’ un capolavoro, e sono stufo.

mercoledì 10 dicembre 2008

Omicidio a Road Hill House di Kate Summerscale. Inganni, segreti e la nascita del poliziesco.

Nulla rimane celato per sempre”. Wilkie Collins

Nel 1860 l’omicidio di un bambino in una rispettabile famiglia della borghesia inglese attira le attenzioni di pubblico, giornalisti e scrittori. La straordinaria bravura di Kate Summerscale permette di inserire citazioni o brevi note senza interrompere l’emozione della lettura. Il giallo classico si unisce alla ricostruzione storica in un saggio di grande bellezza. Ogni parola è pesata. Tutte le frasi sono necessarie. I particolari contano.
Conosciamo i nomi di chi entrò nella casa il 29 giugno, perché ognuno di quei visitatori avrebbe potuto essere l’assassino. Sappiamo quando fu riparata una certa lampada, perché avrebbe potuto illuminare la scena del crimine. Sappiamo quando fu tagliata l’erba in giardino, perché la falce adoperata avrebbe potuto essere l’arma del delitto. Il ritratto di Road Hill House che ne viene fuori è morbosamente dettagliato, ma incompleto”.
Quello che rende unico questo libro è l’indagine su investigazione reale che ha modificato la storia di un intero genere letterario: il romanzo poliziesco. Tutto, o quasi, sembra nascere nell’estate del 1860.
L’ispettore Wicher, membro di una squadra di investigatori che costituirà il germe della futura polizia di Scotland Yard, è uno dei protagonisti di “Omicidio a Road Hill House”. Wicher fornirà numerosi spunti a Collins, Dickens e ad altri autori. Si creerà un nuovo clima: “In molti ebbero l’impressione che Wicher avesse finito per violare il santuario della classe media, la casa, distruggendone la privacy. Aveva messo a nudo l’atmosfera corrotta della famiglia, fatta di trasgressioni erotiche, crudeltà mentale, follia, solitudine, gelosia e disprezzo. Le sue indagini contribuirono a creare un diffuso voyeurismo e un clima di sospetto; il detective divenne una figura dell’oscurità, demone e semidio”.
Omicidio a Road Hill House” è un’opera indispensabile per comprendere l’evoluzione del genere poliziesco. Un saggio romanzato dove ogni sentimento o certezza si confronta con il suo opposto. La letteratura di genere nasce dallo sguardo verso l’oscurità e, anche se si sposterà verso l’intrattenimento, manterrà sempre il suo marchio intinto nel sangue. Come ha detto David Peace: “Noi siamo definiti e dannati dai crimini del tempo in cui viviamo".

L’autrice non si limita a documentare la nascita della figura dell’investigatore, ma analizza anche l’uso di termini come hunch o lead, legati all’indagine di polizia e che iniziano a essere usati proprio nella metà dell’Ottocento. La storia plasma la lingua e la letteratura. E il delitto trasforma anche gli oggetti: “ogni cosa era potenzialmente importante, tutto poteva celare segreti. Solo quando l’omicida fosse stato acciuffato gli oggetti quotidiani avrebbero riacquistato la loro innocenza”.

Invenzione e rovina di un detective”.
Charlotte Brontë per prima paragonò l’investigatore a un segugio. Kate Summerscale, mentre si inoltra sospesa tra saggio e romanzo nella risoluzione dell’enigma, continua fornire informazioni sulla figura dell’investigatore; sulla percezione che di lui hanno i lettori e le persone, in generale. Il sottotitolo della sua opera mette in risalto un’essenziale chiave di lettura del suo saggio. Se da un lato abbiamo il delitto (nel titolo), dall’altro tutto si aggroviglia e si dipana intorno al detective Wicher. L’ispettore Wicher, come tutti in quest’opera, è stata una persona reale. E l’uomo spesso fallisce. “Un detective di carta ci mette subito di fronte a un delitto e poi alla fine ci assolve da ogni complicità. Spazza via i sensi di colpa, l’incertezza, la presenza costante della morte”.
Summerscale non dimentica che Saville, il bambino ucciso, è realmente esistito. Migliaia di atti e documenti consultati. Oltre 40 pagine di note, informazioni bibliografiche, foto, illustrazioni e piantine. E anche referti autoptici. Nel suo post-scriptum l’autrice ricorda un breve frammento riportato da un medico. E’ una luce che riporta alla realtà. E la realtà non è una tragedia a lieto fine. La mano del bambino si alza a proteggere il collo. Inutilmente.

mercoledì 3 dicembre 2008

Tortuga di Valerio Evangelisti. Benvenuti a Disney World.

Arraffiamo di tutto e vendiamo di tutto, uomini inclusi. Noi siamo il futuro e nessuno ci fermerà”.

Tra masconi, coffe di trinchetto e terzaruoli si srotola l’erudita narrazione di Valerio Evangelisti. Sullo sfondo le complesse manovre politiche europee (è il 1685), in primo piano orzate, arrembaggi e scontri di pirati. “Tortuga” è un libro di avventure senza troppe pretese. Le derive sociopolitiche sono lasciate al chirurgo sadico De Lussan, ma occupano, fortunatamente, mezza pagina in tutto.Il resto è intrattenimento di buona fattura. Evangelisti non rinuncia a nessun vezzo: compare anche una versione in nuce della canzone Bamba: “Yo no soy marinero, soy capitán” ribadisce De Grammont prima dell’attacco. Personaggi ben delineati. Anche se la figura del gesuita dal torbido passato ormai puzza di vecchio, Rogerio, il protagonista, è un utile aggeggio narrativo per scorrere veloci sulla trama. Romanzo dalle dimensioni contenute e su cui mi pare inutile sprecare altre parole. Un esercizio riuscito, di cui non si sentiva la mancanza.

lunedì 24 novembre 2008

“Balkan Bang!” di Alberto Custerlina. Cevapi, cipolle e armi. Tante armi.

Criminali, poliziotti, killer psicopatici e Sarajevo in fase di ricostruzione: i fori negli edifici come tanti occhi da chiudere con cemento e stucco.
Balkan Bang!” di Alberto Custerlina è una prova, se ancora ce ne fosse bisogno, che la narrativa italiana può seguire strade nuove, rielaborare generi e riuscire a trascinare il lettore in un racconto adrenalinico e affascinante. Un noir mescolato al thriller dove i dialoghi sono al centro dell’azione con una lingua familiare e convincente che nasce da Elmore Leonard e dal cinema americano e italiano. Quando Cedomir deve raccontare la storia del Mancino inizia dal porto di Dubrovnik, dove ci sono lui, il Mancino, che all’epoca la mano destra l’aveva ancora, e Stojan Due Dita, ma poi inizia a spiegare anche che fine hanno fatto le altre otto dita di Stojan. Ecco: Custerlina riesce a maneggiare, nei dialoghi, storie e riflessioni sulla morale, e racconti dentro altre storie. Un’impresa non facile. Nella scrittura dialoghi e narrazione orale trasposta in parole diventano uno dei motivi ricorrenti del romanzo: un modo affascinante di percorrere la storia.
Alberto Custerlina non risparmia energie ed insegue con ottimi risultati una trama contorta come la vita dei suoi personaggi. A volte sopra le righe, a volte sotto, e a volte non si sa dove. E’ una letteratura di genere che i cliché li usa solo per costruire un canovaccio: la narrazione poi procede a ruota libera. Una lettura liberatoria. Fuori dai soliti schemi. Impregnata dall’odore dei cevapi e dal gusto acre della polvere da sparo.

Alberto Custerlina, “Balkan Bang!”, pp. 218, 16 €, Perdisa Editore, 2008.

domenica 23 novembre 2008

Atterraggio perfetto. La vita facile di Richard Price.

“…preferiva che i crimini avvenissero alle ore piccole, quando la pace soprannaturale della città consentiva un dialogo più profondo con la scena”.
Per la visione ricca di dettagli, di eventi marginali, ma di grande potenza narrativa, Richard Price ricorda, in versione aggiornata e meno epica, Charles Dickens.
La vita facile” usa un omicidio come pretesto per raccontare New York divisa tra vecchi palazzi, negozi arabi, bar, mini-market, muri ingrigiti e appartamenti con vista sul parco. Ci sono Eric (anche il cognome è dickensiano: Cash), artista come tanti, arenato in un bar, Matty e Yolanda, due investigatori, Ike Marcus, Billy e molti altri ancora.
Opera non facile, ma di facile lettura, “Lush Life” è il gioco perfetto del narratore onnisciente. Il romanzo al suo meglio. Il lettore vede ciò che accade. Sente gli odori. I suoni.
Parlavo di eventi marginali e della potenza narrativa: è il discorso di Nabokov nella sua lezione su “Casa Desolata”, l’anonimo che attraverso una descrizione, un gesto diventa immagine letteraria, e per Dickens, o Price, icona di uno stile. In un ascensore affollato, foderato di fogli di alluminio “due cinesi si stringono al loro carrello come pellicola sigillante”: non sono niente per la storia, comparse senza peso, ma, attraverso le descrizioni, Richard Price rende tutto unico. E’ una scrittura preziosa di questi tempi. L’autore non è certo alla sua prima esperienza, oggi ha quasi sessanta anni, il suo primo romanzo è uscito quando ne aveva ventiquattro, nel frattempo ha scritto “Freedomland”, “Clockers”, e anche alcuni episodi della serie poliziesca “The Wire”.
La vita facile” è costruito per frammenti. Personaggi e inquadrature. Price non perde mai di vista il racconto: è solo grazie alla sua straordinaria abilità, se il romanzo non naufraga, se i frammenti s’incastrano alla perfezione. Non troppi personaggi, non troppe visioni e versioni, ma molti personaggi, molte anime che muovono i fili della storia. “La vita facile” è New York. E’ un omicidio, vendetta, riscatto, amarezza, speranza. E’ un salto con il paracadute, e insieme l’incertezza che la vela si apra.

lunedì 17 novembre 2008

Il tempo infranto di Patrick Fogli: demolizione controllata

E’ una lettura interessante, suo malgrado, “Il tempo infranto” di Patrick Fogli.

Compaiono numerosi personaggi attraverso i quali si sarebbe potuto scrivere un romanzo. Fogli, purtroppo, non usa la gabbia dei riferimenti storici alla maniera di Ellroy. Fogli vuole tutto. E subito. E accosta nomi inventati, nomi veri (pochi). Inventati per evitare querele, forse, ma il risultato è torbido. La narrazione è affannosa. Se non puoi dire, meglio tacere. Avesse adottato un profilo diverso, una visione particolare, avesse approfondito una tessera, invece di lanciarsi nella costruzione abborracciata di un puzzle intero, Fogli avrebbe potuto scrivere un romanzo almeno decente.
Ci sono molti spunti. Anche negativi: si veda il “tenero” amore tra Chicco e Giada, che sa molto di reality show. Chissà, forse a Fogli lo ha rovinato la TV. O la musica.
Tutti stanno cercando qualcosa canta Annie Lennox e Giada si ferma in mezzo alla corsia dei surgelati” (sic).
Il risultato è viziato, come detto, dalla spropositata ambizione dell’autore. E’ come guardare un affresco (di qualità artigianale) in cui i volti dei personaggi siano stati sostituiti da maschere amorfe.
La strage alla stazione di Bologna ha prodotto migliaia e migliaia di pagine tra libri, reportage e sentenze (definitive).
Fogli insiste sulla strada dove il deputato che muove le fila si chiama, nel suo libro, “l’Onorevole” (complimenti per la fantasia…) e via di questo passo con Numero Uno, Didi, il Guincio, il Guercio, Pinchiopimpernacolo ecc. ecc.
Sinceramente, dopo l’ottimo romanzo di De Cataldo sulla Banda della Magliana (dove compariva “il Vecchio”), si pensava che anche nel nostro paese si fosse pronti per una sorta di “American Tabloid”. Purtroppo Patrick Fogli ci dimostra che non è così.
Però. Però “Il Divo” di Paolo Sorrentino è incentrato sulla figura di Giulio Andreotti, e nel film Andreotti si chiama Andreotti, Pomicino si chiama Pomicino, Pecorelli si chiama Pecorelli, Lima si chiama Lima e… ci siamo capiti.
Forse, come dice uno dei personaggi di Fogli, “qui manca la volontà”.
Il risultato è un romanzo mediocre. Fallimentare nell’invenzione narrativa e nella ricostruzione storica.
Per riassumere il romanzo userei una frase che compare a pagina trentasette (il correttore si era, giustamente, addormentato prima):
La rapina non è mai centrata niente”.
L’epitaffio perfetto per la narrativa di Fogli ed i suoi labili, per non dire inesistenti, contatti con la letteratura.Le parole esistono: bisognerebbe avere il talento e il coraggio di scriverle. Non cercate in questo libro né una cosa, né l’altra. Non le troverete.

venerdì 14 novembre 2008

Pronto al salto. Forse. "Il gregario" di Paolo Mascheri

[POST RIMOSSO]

Avevo contattato l'autore per alcune domande, ma se ne è uscito dicendo "con tutta franchezza" che non può rispondere a un'intervista che segue una recensione dove
si paragona la scrittura del romanzo, in alcuni punti, all'aforisma (in effetti che brutta parola... forse ad Arezzo è un insulto, vai a sapere...).

Però, guadagnate il video di una canzone stupenda:
Iron and Wine, "Naked As We Came", dall'album "Our endless numbered days".

venerdì 7 novembre 2008

Sofia

Speriamo sia saggia (come dice il suo nome). Di sicuro è femmina.
Oggi, prima dell'alba, è nata Sofia.

giovedì 6 novembre 2008

Okkervil River e altri

Con l’ultimo album i Deerhoof (San Francisco) approfondiscono la vena rock e sperimentale degli ultimi lavori. “Offend Maggie” (2008) racchiude tracce dove la voce di Satomi Matsusaki si incolla alla melodia trasformando le parole in un’appendice del suono. Un buon disco.



Da Chicago invece arrivano i Bound Stems, con “The Family Afloat” il gruppo si distacca dal precedente “Appreciation Night” e raggiunge vette inaspettate. Il suono è stupendo anche se, come dice la Pitchfork Review, a volte il tutto è tenuto insieme con il chewing gum.



Ed ecco gli Okkervil River

Non è strano che Uncut, la rivista che ha dato cinque stelle al capolavoro del déjà entendu, ovvero “Stay Positive” degli Hold Steady, sia stata una tra le più avare verso questo album.
Semplice: gli Okkervil River scrivono una musica originale, elegante, di forte impatto con pezzi capaci di trascinare la platea come "Lost Coastlines" e altri più riflessivi come “Pop Lie”.
The Stands Ins” è un vero capolavoro, un album con influenze rock e indie completamente rivisitate. Se il precedente “The Stage Names” era un disco innovativo, qui il gruppo di Will Sheff unisce alla ricchezza dei suoni un’apertura all’ascoltatore che rende il primo approccio più semplice. Lo chiamano southern rock, ma in fondo è solo ottima musica.



Comprate direttamente qui:


domenica 26 ottobre 2008

Le Strade Blu di James Sallis

"Siamo le cose che ci accadono, la gente che abbiamo conosciuto, e niente di più”.

La scrittura di Sallis è, come sempre, limpida e ricca, ogni riga deve condensare un’emozione, sia essa un ricordo, un odore o un suono. Il genere noir riscritto da Sallis diventa un viaggio nelle pieghe delle cartine autostradali, nelle città di poche anime in zone sperdute del Tennessee (oppure dell’ormai defunta New Orleans, nel caso dei romanzi di Lew Griffin).
Anche qui, nel Sud, le città più importanti di un’area metropolitana diventano sempre omogenee, una lunga balbettante catena di McDonald’s, KFC, Denny’s, mentre le caffetterie e i ristoranti del posto si aggrappano alle periferie come se la forza centrifuga li stesse scagliando sempre più lontano. Al giorno d’oggi mi scopro a dovermi calare negli habitat cittadini per gradi: proprio come un subacqueo che risale in fase di decompressione, solo che io vado a fondo”.
La strada per Memphis” (“Cripple Creek”, 2006) riprende trama e protagonista, e io narrante, di “Cypress Grove” (“Il bosco morto”).
Turner può apparire la classica figura del detective problematico in fuga da un passato oscuro. Non è solo questo. L’apparenza inganna. L’apparenza è un abito comodo per far muovere il personaggio all’interno della trama noir. Come spesso accade la bellezza (e la differenza) è nei particolari: la struttura musicale della prosa di James Sallis si mantiene sempre intatta. Anche in “Cripple Creek”.
La struttura poliziesca (mafia, denaro rubato, vecchi colleghi, vendette) serve a intrecciare una storia che non vuole essere altro che il racconto a ruota libera di John Turner e della sua vita. L’arrivo della figlia, il rapporto con Val e con le persone conosciute acquistano l’aspetto di piccoli quadri in un disegno più vasto e incompiuto. Nella narrazione s’inseriscono spesso i ricordi delle esperienze di Turner come terapista (si è laureato in psicologia mentre era in carcere, dopo avere sparato a un suo collega poliziotto, ma questa è una storia lunga). Insomma “Cripple Creek” è uno straordinario insieme di riflessioni, pause, accelerazioni, una rappresentazione dei battiti di un cuore, e, in definitiva, della vita in generale.
Nella postfazione, Tiziano Gianotti esamina con cura la scrittura di James Sallis, ma il punto migliore rimane la sua breve citazione dell’attività dell’autore come poeta. Sì, Sallis è un traduttore, musicista, poeta e altre cose ancora.
Anche nella forma “La strada per Memphis” mi ricorda un libro di poesie, sottile e denso. Oppure una raccolta di preghiere laiche, dove si ragiona sulla stupida nostalgia per un amore perduto o per una opossum (Miss Emily) scappata dalla sua tana abituale.
Questo è James Sallis, un poeta che usa il ritmo della musica blues, i sapori della cucina degli stati del Sud, e il paesaggio a volte ostile e spesso avvolto dalla bellezza per raccontare un uomo e la sua vita. Poco di più, forse. La differenza è lo stile. La differenza è solo il verso di una sua poesia:
Find beauty. Try to understand. Survive”.

giovedì 23 ottobre 2008

The Rascals: Rascalize. Questo è un esordio.


Il nome della band è ripreso da quello di un famoso gruppo americano degli anni '60 di soul rock.


Miles Kane dopo l'esperienza con il leader degli Arctic Monkeys che ha portato al discreto "The Last Shadow Puppets" esordisce con la sua band (dopo un buon EP) e il disco è davvero sorprendente. Ovvio che tutto è relativo, ma in periodo in cui si sentono elogiare album come quello degli Hold Steady (Springsteen versione noiosa), "Rascalize" ha tutte le carte in regola per affermarsi come un esordio memorabile. Ottimo rock. Un evidente ricordo della musica dei Coral, un richiamo ai suoni dark, e l'energia di una voce instacabile.
Raccomandato a chi ha voglia di ascoltare rock, rock e basta senza troppe etichette alt. indie etc.
Stupenda anche la traccia finale "I'll Give You Sympathy" , un chiaro indizio che "Rascalize" non ha momenti morti, ma mantiene sempre alta la tensione.

Un patetico tentativo


http://www.phonkmeister.com/post/55678270/un-uccellino-mi-ha-passato-in-anteprima-la

giovedì 16 ottobre 2008

Tropa de Elite


A Rio de Janeiro le squadre del BOPE (Batalhão de Operações Policiais Especiais) dispongono di circa 100 agenti, la polizia di trentacinquemila. Narrato dal punto di vista di un capitano del BOPE e frutto dei racconti di ex-poliziotti, Tropa de Elite, Orso d’Oro al Festival di Berlino (2008) è un film ambiguo, accusato di elogiare i metodi violenti degli squadroni della morte. In realtà il regista José Padilha si serve della storia (e dello stesso sceneggiatore di “City of God”, 2001) per portare in scena, attraverso un montaggio che alterna tempi e visioni con un ritmo serrato, quanto di più vicino alla realtà si possa dire. Il risultato è un racconto del reale dove violenza, crimine e critica sociale sono una cosa sola. In questo mescolare senza stacchi netti è racchiuso il difetto (presunto) del film.

Nel 1997 il Papa in visita a Rio alloggerà all’Arcivescovado, vicino a una favela, il BOPE, sei mesi prima della visita, inizia una serie di incursioni contro i narcotrafficanti aumentando il sequestro di armi ed eliminando fisicamente vari uomini delle organizzazioni che controllano le favelas. In una scena il capitano Nascimento alla richiesta di un suo agente che ha appena torturato un criminale per estorcergli un’informazione:
Agente: “Di lui cosa ne faccio?”
Capitano Nascimento: “Lo mettiamo in conto al Papa”
Esce dalla stanza. Spari in sottofondo.


La vicenda privata che tiene insieme la storia è la ricerca da parte del protagonista di un suo sostituto. Nascimento è consapevole che continuando nel suo lavoro perderà la moglie e il figlio appena nato: qui entrano in scena Neto e Matias due amici poliziotti dai caratteri diversi, ma accomunati da un identico odio per la corruzione. Il BOPE ha due nemici: i narcotrafficanti e i poliziotti corrotti, e in questa visione dove nessuno può salvarsi, è difficile scorgere una facile morale. L’ambiguità nutre il film, il montaggio adrenalico e le atmosfere ricordano “City of God” di Meirelles. Strano che il film di Meirelles fosse accusato di essere uno spaccato edulcorato e pensato per i festival e che per Padilha si argomenti usando una presunta visione fascista delle operazioni del BOPE. La questione è semplice, se l’autore adotta un punto di vista, il suo compito è raccontare la storia in modo autentico. Come detto, in Tropa de Elite non esiste nessuna assoluzione: né per la polizia corrotta, né per gli studenti che manifestano solo quando a essere uccisa è un a ragazza di una ONG, e neppure per il protagonista, il capitano del BOPE e infatti il finale è la dimostrazione che per salvare se stesso deve condannare qualcun altro. Da vedere

giovedì 9 ottobre 2008

IL LUOGO...

Il luogo più oscuro del titolo si riferisce, probabilmente, al posto della mia libreria dove finirà 'sto volume (insieme a Giordano, Holt, Lazzarotto e amici vari). Un thriller scorrevole, ma sicuramente potete trovare di meglio. Non inizia male, peccato che superata la metà del romanzo Judson pare perdere tutta l’ispirazione, semmai l’abbia avuta, e il racconto si trasforma nella banale cavalcata verso il classico colpo di scena finale. La trama è tenuta insieme con lo sputo. Alcuni buoni spunti come quello del rapporto studente-insegnante, scrittore-mentore ecc. ecc. sono sviluppati male. Uno dei protagonisti, Kane, ha il blocco dello scrittore, sarebbe bene che anche Judson iniziasse a riflettere sul problema della scrittura come fa Kane, ma si sa, le bollette non si pagano da sole. Leggete altro, questo va bene solo se avete tempo da perdere.

lunedì 6 ottobre 2008

Teste mozzate bollite. Irvine Welsh non gioca a dadi, gioca subbuteo.

E la gente non vuole la rivoluzione permanente, vogliono rilassarsi ogni tanto

Jenni e Jason imprigionati nel Fife, regione della Scozia a Sud di Edimburgo, sono i protagonisti del nuovo romanzo di Irvine Welsh, “Una testa mozzata”. Il titolo originale è “The Kingdom of Fife”, ma una testa mozzata (e anche un bel pentolone) compare effettivamente nel libro, e poi è un titolo che fa più “Welsh” e permette a Guido Scarabottolo di firmare un’altra copertina per Guanda. Ormai i tratti del disegno scarabottoliano sono una cifra distintiva dell’Editore, che nella prefazione di un catalogo elogiava Scarabottolo e quindi se stesso che lo aveva scelto con un’autoleccata di culo che non si vedeva da tempo, ‘calatroia. Il romanzo è pieno di questo linguaggio lievemente grezzo cioè tipo:
Ai tempi avrei potuto rompere tutte le fregne del Fife, cazzo, porcalatroia”.
Alcuni criticoni hanno detto che tutti ‘sti cazzi, ‘calatroia, stronzi, cagate et similia sono pretestuosi: che andassero pure affanculo.
Il romanzo alterna il racconto in prima persona di Jason e Jenni, con relativo cambio di registro (con lei ci sono meno imprecazioni), ma in fondo il succo è quello: due giovani che vivono ancora con i genitori e hanno sogni di fuga, soprattutto dal Fife. Il romanzo è oro nero (non il petrolio, ma la Guinness), autoerotismo, partite a subbuteo, e molto altro.
La traduzione di Massimo Bocchiola riesce a rincorrere il filo, non sempre evidente, della scrittura di Welsh e mi ha fatto pensare a come sarebbe venuta fuori ‘sta roba se a tradurla fosse stato quel testa-moscia di N.G., che gli serve una flebo di Levitra anche solo per tenere ritta una penna, ‘calatroia, caromio.
Comunque il romanzo funziona. Welsh è un autore abile in grado di dosare realtà, ironia e situazioni grottesche senza mandare tutto a puttane. Insomma, è ovvio che alle spalle della scrittura volutamente rozza e traballante sia presente un lungo lavoro di revisione: un narratore in prima persona come Jason può sbottare in “il tanfo della disperazione è un bromuro sociale”, solo se pagina dopo pagina il personaggio è reso credibile. Welsh non usa figurine ritagliate o giocatori del subbuteo come personaggi dei suoi romanzi, quello son bravi a farlo gli scrittori fighetti appena usciti da un corso di scrittura creativa. Nella ripetitività delle imprecazioni è contenuto il ritmo, mentre la melodia è tutto il resto, è la scrittura di Welsh, autore capace di mantenere una propria cifra stilistica insieme all’originalità: un’impresa non da poco.

sabato 4 ottobre 2008

L'Einaudi colpisce ancora. "La Tigre Bianca" di Aravind Adiga.

Dopo Chiara Strazzulla, l'Einaudi pubblica un altro romanzo d'esordio...

In sette notti Munna detto la Tigre Bianca racconta in una lunga lettera al primo ministro cinese come funzionano le cose in India. Il racconto è scorrevole, molto semplice, con alcuni momenti di buona scrittura alternati a una più generale piattezza. Se volete sapere qualcosa dell’India prendete il bellissimo libro “Maximum City” di Suketu Mehta: il tono mescola il reportage giornalistico al racconto personale, e il risultato sono oltre cinquecento pagine dense e ricche di immagini. Qui invece cosa abbiamo? L’esordiente Adiga con una storiella di duecento pagine (a caratteri belli grandi) che spera di unire ironia (attraverso le parole del protagonista, servo emancipato attraverso l’assassinio) e uno sguardo acuto (il suo, dell’autore intendo) per illuminarci sull’India di oggi. La desolante opacità della traduzione di Norman Gobetti, al solito, non aiuta. A questo si aggiunga ancora che la cura editoriale è pessima: vengono riportati termini indiani non tradotti (giustamente), ma, purtroppo, scrivere UNA pagina di glossario al fondo del libro è una fatica estrema. Un libro mediocre. Un ottimo esempio delle pessime scelte editoriali compiute ultimamente dall’Einaudi.

sabato 20 settembre 2008

Quasi (ma non proprio)

Dopo “Sportswriter” (1986), ritorna la vita di Frank Bascombe. Ora siamo nel 1988, Frank ha quarantaquattro anni e non è più un giornalista sportivo, ma fa l’agente immobiliare. E non dite “Che tristezza!”, perché già a pagina venti, circa, avrete cambiato idea. Ford porta il lettore nelle pieghe della vita. Per un istante tutto appare chiaro, giusto il tempo di pronunciare le parole scritte o di rileggere un paragrafo poi la vita si richiude alle spalle del protagonista e del lettore.
Il giorno dell’Indipendenza” (1995) è ambientato poco prima del quattro luglio: Frank cercherà di vendere una casa ai Markham, arrivati dal Vermont, passerà un po’ di tempo col figlio Paul (l’ex moglie si è risposata) e vedrà, per una serata, Sally.
L’autore ha la capacità di dilatare il tempo. Ford ogni dieci anni circa scrive questo romanzo, dopo il terzo (The lay of the land, 2006) credo che abbia finito, un romanzo dove, durante una vicenda di pochi giorni Frank Bascombe, racconta quello che succede (non molto, in realtà: è vita quotidiana o quasi) e quello che pensa (molto: è una persona riflessiva). Costruisce spiegazioni, traccia le mappe che lo hanno condotto dove è ora e subito inizia a dubitarne.
Leggere Ford è sempre un’esperienza di profondità, il fatto che le coordinate del presente del racconto siano raccolte in uno spazio e in un tempo ristretti amplifica questa sensazione.
Una delle esperienze tipiche di Frank Bascombe, e anche una chiave della narrativa di Ford, è racchiuso nel sentimento del “quasi (ma non proprio)”.
Nell’aria che si muove appena si sente ronzio umano e il respiro della risacca, il basso brusio delle radio e dell’acqua che copre parole dette in un sussurro. In tutto ciò c’è qualcosa che mi commuove fin quasi alle lacrime (ma non proprio); la sensazione di essere stato qui, o qui vicino, di essere stato qui tempo fa, soffrendo atrocemente, e che sono qui di nuovo, respiro la stessa aria di allora. Solo che niente si manifesta, niente fa un segnale. L’oceano serra le file, e altrettanto fa la terra”.
Anche nei rapporti amorosi Frank è una persona riflessiva e, come molti, essenzialmente stupida. Volevo scrivere “come tutti noi”, ma, si sa, ci sono menti acute e brillanti che non possono essere catalogate e in effetti non può esistere il concetto di “tutti noi” se si considera che alcuni esseri arrivano a compiere atrocità efferate oppure, più banalmente, arrivano a valutare come un capolavoro o anche solo un’opera letteraria un libro sui numeri primi e la solitudine che si avvicina più che altro al concetto di spazzatura piuttosto che a quello di letteratura. Oppure, forse, proprio il fatto di comprendere queste differenze può contenere l’idea che, in fondo, un “tutti noi” esista; cioè il concetto di fare due passi indietro e osservare la situazione.
“-Frank, fai troppi salti nel passare da un argomento a all’altro. Non riesco a seguirti molto bene-.
-La pensa così anche mia moglie. Forse dovreste parlarne, voi due. Credo di trovarmi più a mio agio nella corrente principale. E’ la mia versione del sublime-.
-E sei anche molto guardingo- dice Sally. -E non ti impegni. Lo sai, vero? Fai i salti, sei guardingo e non ti impegni. Non è una combinazione molto facile, per me-. (E neanche buona, ne sono certo).
-I miei giudizi non sono molto solidi- dico -e quindi cerco di non causare troppo disturbo-”.
Ecco, la scrittura di Ford è quasi, ma non proprio, così.

sabato 13 settembre 2008

Povero te

E povero me che ti leggo, caro Giralt Torrente, o meglio ti ho letto, un po’ a casa, distratto dalle forme del parquet, un po’ seduto sotto un albero, prima di iniziare a lavorare, guardando l’orologio aspettando di telefonare al mio amore. In fondo solo povero te.
Madre, padre, e due fratelli, anzi un fratello e un fratellastro (il birichino è il padre…). E soprattutto il protagonista, il fratello di cui sopra, e sua moglie Marta. Fine.
Il lungo monologo del protagonista si trasforma in un’analisi dell’infanzia, dell’amore, e della vita in generale. “Gli esseri felici” di Marcos Giralt Torrente è un trattato di anatomopatologia dei sentimenti. La narrazione procede come un’imbarcazione governata ora con mano sicura, ora abbandonata alla corrente.
L’autore di fronte a una materia tanto vasta non riesce sempre a padroneggiare il racconto, d'altronde fin dalle prime pagine dichiara che: “raccontiamo storie mutile non perché vogliamo farlo, ma perché qualsiasi storia, per quanto possa essere puro il suo proposito, ha vari modi di essere narrata e non è possibile utilizzarli tutti. L’unica risposta a perché si racconta è lo stesso raccontare”.
La molteplicità è un’ossessione che ritorna più volte, le possibilità immaginate e non realizzate sono un tema analizzato a fondo: a questo punto è naturale che le onde travolgano il narratore ed il racconto inizi ad andare alla deriva.
Amore e morte, topoi dell’arte, spingono a parlare e a narrare. “Abbiamo paura dell’amore perché conduce alla verità, mentre per continuare a vivere abbiamo bisogno della finzione”. Le verità sull’amore… parlare d’amore, in maniera esplicita, significa camminare su un terreno minato da stereotipi. Ogni frase rischia di scivolare nel déjà-entendu di un bacio perugina.
L’inizio del romanzo-monologo è ben calibrato, i passaggi temporali, le pause, le rivelazioni e le riflessioni non banali inducono a proseguire la lettura. Bisogna riconoscere a Torrente, quando non gira a vuoto, di saper scrivere in modo incisivo. A proposito dell’altro topos, a cui accennavo prima, la morte, ecco le sue parole: “I morti non parlano, lasciano cassetti chiusi e magari figli, ma la loro stessa condizione immateriale li protegge dal passare del tempo, li rende forti, non come i vivi che s’indeboliscono e si contraddicono e commettono errori. Per dimenticare un morto è necessario che nessuno voglia ricordarlo. Perché un vivo sia dimenticato generalmente è sufficiente lui stesso”.
Non è di certo un’opera insulsa o spregevole come, ad esempio, la letteratura masturbatoria di Giordano, “Gli esseri felici” non è neppure un’opera riuscita, ma di questo è consapevole lo stesso autore, l’urgenza del racconto, la fragilità di un amore da vivere senza finzioni sono il riscatto per pagine vuote, e la sensazione finale è quella di aver osservato l’intimità dei personaggi e vissuto con loro. Puoi fare di meglio Marcos.

giovedì 11 settembre 2008

11 settembre. 35 anni fa…

Nell’aria sottile che respirerete dopo l’undici settembre
Robert Wilson

L’undici settembre del 1973, il golpe militare guidato dal generale Augusto Pinochet, poneva fine al governo e alla vita di Salvador Allende, morto nel Palacio de la Moneda, assediato e poi invaso dall’esercito cileno.
S’inaugurava il regime del terrore di Pinochet che ha causato diverse migliaia di vittime, mentre secondo le stime, contestate, del rapporto Rettig, quelle torturate furono trentamila.
Da “Killing Hope” di William Blum (“Il libro nero degli Stati Uniti”, ed. Fazi, 2004):
“Il ruolo americano in quel giorno fu sostanziale, benché nascosto. Il colpo di stato ebbe inizio nel porto del Pacifico di Valparaiso, con la spedizione a Santiago delle unità cilene di Marina, mentre al largo incrociavano unità americane, apparentemente per partecipare a manovre congiunte con la Marina cilena. Un apparecchio americano WB-575, un sistema di controllo delle comunicazioni aviotrasportato, pilotato da ufficiali americani, sorvolava lo spazio aereo del Cile. Nello stesso momento, 32 aerei da ricognizione e caccia americani atterravano alla base statunitense di Mendoza in Argentina, non lontano dal confine con il Cile [1].
Fu così che il paese rimase isolato per una settimana, mentre circolavano carri armati e i soldati entravano negli edifici.
I poveri ritornarono alla loro condizione naturale, e gli uomini di mondo, a Washington e nelle sale della finanza internazionale, aprirono i loro libretti degli assegni. Un anno più tardi il presidente Gerald Ford sentì il bisogno di dichiarare che ciò che gli Stati Uniti avevano fatto in Cile era nel miglior interesse del popolo cileno e certamente nel nostro miglior interesse [2]. Tra le righe la dichiarazione ha un che di macabro”.

[1]Covert actions in Chile, 1963-1975, The selected Commitee to Study the Governmental Operations, Senato degli Stati Uniti (18, dicembre, 1975). [2] New York Times, 14 settembre, 1974, p. 22.

mercoledì 3 settembre 2008

Una luccicante follia. “Uno strano destino” di Daniel Woodrell.


Il mondo a cui lei aspirava ci sembrava il mondo in un sogno di un bambino, tranne, okay, per la prostituzione maschile e le estorsioni”.

Uno strano destino” (ed. or. “Tomato Red”, 1998) è il secondo titolo tradotto da Fanucci, ma Woodrell non pare avere raggiunto la fetta di pubblico adeguata alla bellezza della sua scrittura. Non credo nella teoria degli happy few, purtroppo è anche vero che neppure “Cutter e Bone” di Newton Thornburg, un vero capolavoro della letteratura, ha raggiunto le vette delle classifiche. Allora? Io intanto vi dico che Woodrell è un genio, poi fate voi.

Daniel Woodrell ambienta le sue storie nel Missouri dei Monti Ozark: il paesaggio creato sulla pagina è vivo, la scrittura di Woodrell procede per immagini e sensazioni. Il romanzo è breve, la prosa densa.
Tra roulotte, case mobili e notti alcoliche rotte dal fischio di un treno, si consuma la storia di Sammy Barlach: di lui conosciamo solo quanto riportato sulla patente. L’io narrante senza passato evoca ricordi di un’epica western trasfigurata in film e racconti. Con quello di Sammy si incrociano i destini di Bev e dei suoi figli, Jason e Jamalee. Un quartetto male assortito con dinamiche di attrazione sessuale, di odio e amore incondizionato tali da riempire la vita di un analista freudiano.
Woodrell può ricordare James Sallis per l’accuratezza e insieme la liricità della prosa.
I capitoli sono piccoli tasselli e l’intero romanzo è un’opera ottenuta per sottrazione.
Sedevamo in cucina piuttosto a lungo, e lasciavamo che il caldo ci dominasse così non dovevamo farlo noi”.
L’azione è lineare, però la linea è corretta da una ponderata follia. La luce è troppo accecante. La notte scuote i ricordi. E anche il paesaggio non sembra trovare pace.
Questa valle, di notte o durante il giorno, aveva le sembianze di una creatura enorme svenuta, qualcosa che aveva corso, aveva corso finché non aveva finito la benzina ed era crollata spossata esattamente qui. Le case erano state lanciate lungo questa increspatura profonda nelle colline, e l’increspatura rappresentava la posizione di un essere derelitto collassato. Legname da sterpaglia, cumuli di spazzatura ed elettrodomestici d’epoca erano sparsi lungo i pendii e attorno alle case inclinate per servire da confine tra qui e qualunque altra cosa non fosse qui”.
Daniel Woodrell: fatevi un favore, segnatevi questo nome.

domenica 24 agosto 2008

L'unica verità. Sportswriter di Richard Ford.


Io vivo nella speranza che si manifesti una grande sorpresa in quello che è pur sempre un contesto favorevole: il cameratismo tra colleghi, l’amicizia, l’amore, la passione. Solo che, quando i fatti sono chiari e definiti, non riesco a sopportarlo e fuggo via più in fretta che posso […]. E’ esattamente come quando si era giovani e si pregustavano le vacanze in famiglia, e poi a viaggio finito ci si ritrovava faccia a faccia con gli involucri dei propri sogni e con la paura che la vita sarebbe stata nel complesso proprio così, gli involucri vuoti dei tuoi sogni sparsi intorno a te. Suppongo che avrò sempre paura che qualsiasi cosa sia, sia così”.

La struttura narrativa è semplice. L’anniversario della morte del primo figlio. Un viaggio a Detroit con una giovane infermiera anche lei divorziata. Il giorno di Pasqua. Però qui non risorge nessuno. Anzi. E a concludere il tutto un epilogo situato a mesi e chilometri di distanza. Un esile, ma fondamentale frammento della lente attraverso cui Richard Ford racconta “l’unica verità che non può essere una menzogna, la vita stessa: la cosa che accade”.
Sportswriter” è una lunga narrazione in prima persona della vita di Frank Bascombe, un giornalista sportivo di trentotto anni. Nel presente del racconto si inseriscono, senza soluzione di continuità, lunghi passaggi dove i ricordi sono rivissuti attraverso lo sguardo dell’esperienza. Siamo definiti più dalle nostre sconfitte, che dalle vittorie. Ford racconta semplicemente di Frank e coinvolge il lettore in una vita suscitando “un piacere che ha una disperata sfumatura di desiderio”.
La scrittura avvolge il lettore. Le parole assumono una consistenza densa. Gli eventi narrati sono momenti del quotidiano e solo attraverso gli occhi del lettore acquistano un nuovo significato.
Parlando della sua breve esperienza come insegnante Frank si lancia in un attacco contro le epifanie joyciane; Ford non insegue le epifanie, perché non ne ha bisogno. E avvicinandosi alla vita nella sua continua sottrazione e aggiunta di eventi, nella sua algebra delirante dove il risultato è sempre inaspettato, che Ford riesce a raccontare Frank Bascombe. Alcuni potrebbero annoiarsi, forse. Probabilmente sono le stesse persone che arrivano a definire noioso “Underworld” di DeLillo. Non voglio paragonare le due opere. Troppo diverse. E’ una questione di ritmo e di stile. Simili la consistenza delle parole e l’emozione di alcune scene, come quella vicino al Ground Zero Burg (il libro è del 1986) dove Frank parla con una ragazza sconosciuta: “Le sue speranze di una buona giornata, suppongo, sono le stesse che ho io. Siamo tutti e due fuori al vento, in attesa, disponibili a un miglioramento. E io spero che un po’ di fortuna attraversi la strada di tutti e due. La vita non è sempre in salita”. Romanzi come “Sportswriter” lasciano il lettore con un senso di libertà, speranza e un’aspettativa rinnovata verso tutto quanto. Un atteggiamento che contiene il germe della delusione e che è insieme quanto di più vicino alla felicità si possa sperimentare. Almeno attraverso la letteratura.

venerdì 22 agosto 2008

Un pregio... (e cento difetti)


Alcune idee divertenti non bastano a fare un buon romanzo. La Scuola Elementare Cavalieri dello Zodiaco, la Foca-Cola, la piazza Pikachu, il reality show San Patrignano: l’universo della pubblicità e della televisione deformato da Marco Lazzarotto è al centro di “Le mie cose”. Collocato in un tempo preciso, come ogni satira, il romanzo nasce già vecchio e superato, probabilmente il mio giudizio è viziato dal fatto che sto leggendo un libro di Richard Ford del 1986 che ha il dono di parlare al lettore di qualsiasi tempo e luogo (si chiama letteratura): “Le mie cose” non ha una scrittura entusiasmante e l’ironia serve a poco quando l’autore non sembra avere altri argomenti. Un pregio: è breve. Ma il problema è che, per quanto breve, in realtà sarebbero bastate quattro pagine per contenere lo straordinario (seh...) umorismo di Lazzarotto, e forse già quattro sarebbero state troppe. Se dovete spendere soldi, compratevi l’album di Angus and Julia Stone, “A book like this”. Stupendo.

mercoledì 20 agosto 2008

Ho qualcosa da dirti


“I segreti sono la mia valuta corrente. Ci traffico per guadagnarmi da vivere. I segreti nascosti nel desiderio, in ciò che le persone vogliono davvero, e in ciò di cui hanno più paura. I segreti del perché l’amore è difficile, il sesso complicato, la vita dolorosa e la morte così vicina eppure tenuta debitamente a distanza. Perché il piacere e il castigo sono così strettamente connessi? Come parlano i nostri corpi? Perché siamo noi stessi la causa delle nostre malattie? Perché desideriamo il fallimento? Perché il piacere è difficile da sopportare?”

Lo ammetto. Ero fiduciosa. Kureishi sembrava avere molto da dire, piazzando un incipit così, che sembra prenderti alla gola. Ci speravo. In poco più di 450 pagine mi darà delle risposte. E’ questo che facciamo. Cerchiamo noi stessi, le nostre risposte, le soluzioni. E se qualcuno, a volte, le trova per noi, siamo sollevati, grati.
Si, Kureishi ha molto da dire.
La vita di uno psicoanalista di mezza età in una Londra contemporanea, un uomo incastrato nelle sue piccole ossessioni, minacciato dal ricordo di un unico amore, intrappolato tra presente e passato, non ancora in grado di essere completamente sé stesso. Un amore sconsiderato per il figlio, affetti strambi, sorelle piene di tatuaggi e ferite meno visibili di quello che sembra, amici accademici che riscoprono sesso, e amore, e tradimento, e fiducia. E il ricordo, sempre, comunque. Ognuno di noi ha questioni irrisolte dentro di sé, cose che ci portiamo dietro, grandi e piccole, e che, ascoltate o no, sono sempre lì, sull’orlo della nostra consapevolezza.Ciò che abbiamo di irrisolto è ciò che ci spinge a cercare, che non ci fa sentire mai veramente tranquilli.
E’ raro poter dire a sé stessi che ogni piega del nostro essere h
a la sua giusta collocazione. Più spesso succede che il telo si sposti a rivelare buchi, e nodi, e pezze, e strappi. Jamal si muove in una città che cresce tra integrazione e paura, ricordando un passato fatto di amicizia, amore e scoperte terribili.
Ed è naturalmente il ricongiungimento con questo passato a scatenare la parte centrale del romanzo.
Che non si lascia scappare nulla. Madri assenti, madri colpevoli, ex fidanzate in cerca d’amore, o solo di compagnia, luoghi poco raccomandabili, compari delinquenti, prostitute, amiche, pazienti. Un caleidoscopio che ogni tanto va allontanato dallo sguardo perché troppo ricco di colore, e movimento. Un continuo oscillare di tempi, tra il passato delle rivolte operaie, degli scioperi, delle scoperte, e il presente di un uomo di mezza età che in fondo vuole solo una sorta di pace, e non riesce a trovarla perché nel momento in cui ha tra le mani una soluzione, vede già la possibile alternativa. Il Destino, ciò che la vita continua a riportare sotto il nostro sguardo, le occasioni che ci chiedono attenzione, e noi troppo stanchi, forse, troppo rassegnati per accorgercene.
Non ho percepito gioia nel libro di Kureishi; la gioia sembra essere diventata merce rara.
Anche perché parlando di malinconia, e scelte sbagliate, e rimpianti, sai di aver già attratto tutti coloro che si sentono nello stesso modo. Perché tutti cerchiamo qualcosa in un libro. Ritroviamo le nostre ossessioni, e le nostre fragilità, e scorriamo le pagine in modo ansioso, sperando in qualcosa che possa far respirare anche noi.
Malinconia.
Questo è quello che ho provato chiudendo il libro. Tutte queste cose in potenza, in attesa di accadere e di concludersi. Ci sono nodi che vengono al pettine, ma è come se mancasse sempre qualcosa. E mi ritrovo a pensare che quel qualcosa, forse, non è altro che pace. La pace di avere ciò che si vuole. La pace dell’assenza di domande. La pace di un amore che sai ci sarà per sempre.

lunedì 11 agosto 2008

Ma perché? Ovvero Breve storia di una piccola città di T. R. Pearson


Breve storia di una piccola città” di breve non ha nulla, infatti è lungo 550 pagine, mentre di piccolo ha sicuramente il talento dell’autore. Da più parti questo viene definito un libro divertente. Forse nel 1985 quando è stato scritto l’umorismo aveva altre regole e ritmi, ma non credo sia un problema di tempo e di gusti. Thomas Reid Pearson di Winston-Salem, North Carolina, scrive usando lunghi periodi barocchi per drappeggiarli intorno al nulla. Perché è precisamente di questo che parla il romanzo: di niente. La storia corale dei vari personaggi che popolano l’immaginaria città di Neely è un’inutile elenco di fatti che non vengono nobilitati dalla poesia o dall’arte dell’autore, ma rimangono poveri esempi di un narrare collassato su se stesso.
Sempre il lettore è in grado di capire, generalmente un’ora prima, dove vuole andare a parare l’autore. Sappiamo che qui sta iniziando a costruire una situazione grottesca, che tra poco arriverà l’inevitabile battuta comica che non farà ridire nessuno, che il tono virerà verso il tragico, ed il lettore è sempre avanti rispetto all’autore. Thomas Reid Pearson di Winston-Salem, North Carolina, è uno scrittore che indugia sulle parole, coccolandole, se sapesse scrivere questo sarebbe un dono, purtroppo invece sarebbe stato un bene per tutti se avesse continuato a fare l’imbianchino. Il libro nel 1985 è stato salutato dalla critica americana come un esordio narrativo straordinario. Nel 1985 usciva anche “Meno di zero” di Bret Easton Ellis che raccontava con altro stile una realtà lievemente diversa da questa placida arcadia del Sud: da una parte la Los Angeles della band “X” e degli eccessi, dall’altro il paesaggio di Thomas Reid Pearson, un luogo ottuso e ovattato, il Sud, però non quello di “Deliverance” (“Un tranquillo weekend di paura”) di John Boorman, in T. R. Pearson siamo di fronte a un Sud immaginato, un luogo conservato sotto ettolitri di benzodiazepine. Un anno dopo “Breve storia di una piccola città” usciva il film “Blue Velvet” di David Lynch che raccontava ancora con tutt’altro stile, per fortuna, l’inquietudine nascosta dietro la placida facciata della provincia americana. Guardando il romanzo nel suo contesto e considerando che il film “Deliverance”, tratto dal romanzo di Dickey, è del 1972, viene da chiedersi perché a distanza di ventitre anni un’opera tanto inutile venga tradotta e pubblicata in Italia: il mistero è celato in qualche mente che lavora presso la Elliot Edizioni di Via Isonzo 34, 00198, Roma.
Il finale del libro sembra una ribellione verso la marcia funebre che accompagna l’intero romanzo e suscita una debole compassione. La comicità o ogni sentimento che filtra attraverso la scrittura di Thomas Reid Pearson di Winston-Salem, North Carolina (ora vive in Virginia, ma non viene detto dove, per tutelare la sua vita suppongo), ogni sentimento filtrato attraverso il vuoto della scatola cranica dell’autore è una pallida eco di un’idea che forse, ma è un’ipotesi, forse in altre mani sarebbe potuta essere qualcosa di originale. Il lettore intuisce che T. R. P. vuole davvero raccontare qualcosa, ma proprio non è in grado di farlo. Vuole essere comico, vuole, vuole e non ci riesce.
Pearson ha collaborato alla sceneggiatura di alcuni film tratti dalle opere di John Grisham. Questo è scritto nelle sue note biografiche, proprio alla fine, e suona come un epitaffio. Spero che la Elliot Edizioni di Via Isonzo 34, 00198, Roma, eviti di tradurre altre opere di una noia devastante come questa.

domenica 20 luglio 2008

Il ragazzo delle consegne di Joe McGuinniss Jr. Less than zero, Las Vegas, 2008.



Non è strano che “Il ragazzo delle consegne” di Joe McGinniss Jr. sia stato pubblicato anche grazie alla segnalazione di Bret Easton Ellis.
Molto nel romanzo ricorda “Meno di zero”. Siamo a Las Vegas e non a Los Angeles, ma la scrittura di McGinniss Jr. ha quel ritmo, tipico di Ellis, a metà tra il delirio e la visione più lucida che possiate immaginare.
Il deserto, un cartellone pubblicitario che incombe sulle strade ripetendo il suo slogan, il vento caldo, le prostitute consegnate a casa dei clienti, ragazzine che caricano video su MySpace e YouTube. “Il ragazzo delle consegne” ha situazioni e personaggi misteriosi e insieme semplici. Da questa materia prende forma un quadro desolante e vivo.
Chase ha il cranio distrutto, ricostruito dai chirurghi, ma il romanzo racconta essenzialmente tutto quello che è successo prima di arrivare alla situazione presentata nell’incipit. E’ Chase il ragazzo delle consegne, o meglio l’uomo, ormai infatti non è più uno studente, dipinge o vorrebbe ricominciare a farlo, ha insegnato arte in una scuola. Insieme a lui Bailey e Michelle. I flashback conducono lentamente a una verità che si presagisce da subito, ma in questa scrittura sospesa tutto è avvolto da un perenne senso di attesa. Il procedere per inerzia dei personaggi ha qualcosa di ipnotico. Nell’aria calda di Las Vegas, dove dalla finestra di un albergo giunge ad ondate il pulsare della Strip, il respiro sembra mancare.
Non è un romanzo grandioso, non ha certamente il fascino e la complessità della scrittura di Richard Powers, ma “Il ragazzo delle consegne” racchiude in ogni riga una verità dolorosa, ma ogni riga scorre via come a non voler lasciare traccia di sé: in questa sua ambivalenza, in questa pressione lieve e indecifrabile, è racchiusa la bellezza dell’opera.

giovedì 17 luglio 2008

Gli interessi in comune di Vanni Santoni


“Goloso! Ti metto uno zerouno, che sei stato anche male” (Vanni Santoni, Gli interessi in comune)
“Buone vacanze e non usate sostanze” (carabiniere incontrato a un posto di blocco vicino a Perugia, estate del 1994).

Il Valdarno è la provincia di una provincia: neppure Firenze mantiene le sue promesse. “In questa città le ultime iniziative decenti sono state quelle di Lorenzo il Magnifico”.

Nella vallata di paesi, agriturismi, bar e circoli arci, sopravvive un gruppo di ragazzi seguito dal 1995 al 2005, tra tutti Iacopo, il Malpa, Dimpe, il Mella e Paride. “Gli interessi in comune” di Vanni Santoni prende il titolo da un passaggio del libro che è una triste epifania: “una persona finita insieme a loro solo per un interesse in comune” che poi sarebbe la ricerca meticolosa del consumo di sostanze psicotrope varie. Di base le canne, neanche c’è da discutere, ovvio. Poi si alternano LSD, mescalina, MDMA, fenilciclidina, ketamina, cocaina, salvia divinorum, anfetamine e via di questo passo, astenendosi giusto dall’eroina endovena, che è da “robbosi”.
Probabilmente non avrei dovuto ridere, son cose serie, ma quando Iacopo e il Malpa vanno a trovare un amico ricoverato d’urgenza in ospedale e si preparano due flebo (Ringer) di morfina, non ho resistito. Non ho resistito neppure altrove, a dire il vero. Vanni Santoni, l’Irvine Welsh de Montevarchi, sdraia il lettore con i racconti di dieci anni di viaggi allucinati. I protagonisti crescono, in qualche modo finiranno l’università, e in qualche altro modo rientreranno nelle statistiche dell’Italia che produce reddito, beninteso, lo produce in gran parte per altri, in genere.
Il paesaggio è quello dei dintorni di Figline, anche se compare due volte Amsterdam e mi ricorda il viaggio della maturità e quello fatto dopo dieci anni quando finalmente ho visto il Van Gogh Museum, il Rijksmuseum, Delft, il Mauritshuis di Den Haag, i mulini a vento, e tutte le case storiche dello Herengracht. Ma tolti questi momenti nel “lunapark d’Europa”, la storia è lì in Valdarno con Firenze in cima. Nella provincia opprimente, ci sono paesi come Ambra “dove circola più droga che a Caracas”; e sono posti come il bar, il circolino che radunano gli psiconauti di Vanni Santoni.
Il progetto di Iacopo di scrivere un manifesto che racconti “noi” cioè loro, ovvero una generazione, naufraga subito. L’idea di Santoni non è il ritratto generazionale (lascia diversi indizi evidenti) e questo lo salva dalla facile caduta in cliché che di certo non gli appartengono.
L’uso delle sostanze è ben documentata: “ero deciso a venire, e ora sono ancora più deciso a sfasciarmi. Non siamo qui per divertirci”.
La trama è letteralmente tenuta insieme dalla sostanze, un collante alquanto solido perché effettivamente reale in una fascia della popolazione giovanile. Come detto questo non è un ritratto generazionale sebbene inizi con un manifesto. Quindi per quelli che aspettano cosa dice Ratzinger o il direttivo di partito per esprimere un’opinione, per quelli che hanno studiato e basta e hanno famiglia e sono stati sempre responsabili già a cinque anni, per quelli che il papà gli ha lasciato l’azienda e gli tocca il soverchiante peso di dare da mangiare (i vestiti sono a parte) a cento operai, per quelli che il lavoro è tutto e sono realizzati e la vita vale e bisogna darle un senso, per quelli che hanno già progettato matrimonio, figli e vacanze con anni di anticipo… be’ questo romanzo non è per voi, e neppure per me in effetti, però nell’asfittico universo letterario italiano, pur con i suoi difetti, “Gli interessi in comune “ di Vanni Santoni rimane un’opera sofferta e liberatoria insieme, un malinconico commiato verso gli anni che stanno alle vostre spalle, in qualsiasi modo abbiate deciso di trascorrerli.

martedì 15 luglio 2008

She and Him, Volume One



Un album favoloso, un gioco, una gioia, musica acustica per l’estate ormai inoltrata. She & Him, ovvero Zooey Deschanel e M. Ward, si ispirano esplicitamente a Nina Simone, Chet Atkins, The Ronettes e le canzoni sono una perfetta sintesi di dolcezza e allegria, canzoni di quelle che ti stampano un sorriso sul volto. Zooey Deschanel, attrice in vari film (ora è la protagonista del biopic su Janis Joplin), si rivela un’ottima cantautrice, infatti, escludendo un brano dei Beatles e il riarrangiamento di uno tradizionale, scrive tutti i testi e le musiche. “Volume One” nasce dai numerosi demo registrati da Deschanel, musica fatta in casa e poi portata in studio. Un album limpido, molto semplice che, per questo motivo, è più facile descrivere per sensazioni. Una serata in terrazza, il calore del giorno che evapora nell’ombra, il vento che muove le foglie. Una cosa così.

domenica 13 luglio 2008

Quello che ti meriti di Anne Holt


Anne Holt non scrive come mangia, altrimenti sarebbe già morta di fame: troppi i rischi di cadere addormentata sul cibo.


Gli elementi del romanzo “Quello che ti meriti” sono di una banalità disarmante.
1.Bambini rapiti, segregati e poi riconsegnati alle famiglie uccisi, ma non si sa in che modo (la soluzione naturalmente è semplice, ma i medici legali norvegesi non sono molto svegli, da come li dipinge la Holt).
2.Yngvar Stubø, commissario di polizia, e Johanne Vik, psicologa e avvocato: la solita tensione erotica trai due mentre tentano di risolvere il caso del punto 1 (non entusiasmatevi troppo le loro ginocchia si sfioreranno a pagina 267: se si vuole continuare a scrivere usando gli stessi personaggi è naturale tirarla per le lunghe, si sa che i lettori deficienti abbondano).
3.Il caso di un uomo condannato ingiustamente per l’omicidio di una bambina e rilasciato, senza spiegazioni, nel 1965 (qualcosa in questa vicenda messa di traverso per tutto il romanzo evoca il vago sospetto che il fatto si debba intrecciare con le indagini).

Già Patricia Cornwell non scrive molto bene, ma Anne Holt riesce a fare peggio. Costruisce con cura gli anelli di una collana molto solida: un romanzo per menti dotate di lobi frontali atrofizzati, e neppure l’area di Broca se la deve passare molto bene.
Quello che ti meriti” entra a buon diritto nel novero dei libri insulsi che sarebbero dovuti rimanere nel cassetto o hard disk dell’autore/autrice; romanzi che solo un editore come Einaudi [1], capace, una volta raggiunto il fondo, di iniziare a scavare, può pubblicare con orgoglio. Il simbolo dell’editore, ovvero lo struzzo, ormai da anni ha infilato la testa sottoterra e i risultati sono romanzi mediocri come questo. Esattamente come dice il titolo: “Quello che ti meriti”… vedete voi se il monito è rivolto all’incauto lettore, al gruppo redazionale dell’Einaudi o ad entrambi. Da evitare.
[1] Einaudi pubblica ANCHE ottimi libri.

venerdì 11 luglio 2008

Il dilemma dell'onnivoro di Michel Pollan



Ciò che un americano trova nel piatto a cena ha percorso in media duemilaquattrocento chilometri prima di arrivare lì: spesso il cibo ha più esperienza del mondo di quanta non ne abbia il suo consumatore”.

Il dilemma dell’onnivoro” di Michael Pollan esplora la catena alimentare di quattro pasti, come è indicato nel sottotitolo originale, A natural history of four meals: la catena industriale, quella biologica-industriale, quella del cibo proveniente da una fattoria, fuori dagli schemi “bio” che esprimono spesso una logica di marketing più che una filosofia di vita e infine una cena ottenuta coltivando, raccogliendo e cacciando il cibo (la catena alimentare più breve, sebbene quella più faticosa).
Gli onnivori si trovano di fronte a un dilemma (l’espressione è mutuata dallo studioso Paul Rozin che l’ha introdotta nel 1976). L’onnivoro grazie alla sua capacità di ottenere energie dalle fonti più disparate può colonizzare tutti gli habitat, ma si è trovato durante la sua evoluzione di fronte al problema di ciò che era buono da mangiare oppure non lo era. La capacità di comunicare ha ridotto la portata di questo dilemma, ma la sua complessità è stata per alcuni antropologi una delle cause che ha richiesto circuiti cerebrali più evoluti.
Nella prima parte Pollan esamina la catena alimentare industriale.
“L’industria dei fertilizzanti è sorta dagli sforzi di riconvertire la macchina bellica in tempi di pace”: fertilizzanti e pesticidi sono i figli dei gas tossici e degli esplosivi sviluppati ed usati fin dalla guerra nel Vietnam.
Già alla fine della seconda guerra mondiale il governo americano si ritrovò con enormi quantità di nitrato di ammonio, che è alla base dell’industria degli esplosivi, ma che è anche un ottimo fertilizzante, una fonte di azoto pronta per le piante commestibili, che da ora potranno essere coltivate in maniera intensiva. E’ interessante notare come i fertilizzanti ritornino alla loro “esplosiva” natura negli attentati dei movimenti neonazisti americani (una buona dose di fertilizzanti fu impiegata nell’attentato del 1995 contro l’edificio federale Alfred P. Murrah ad Oklahoma City[1]).
Il primo e decisivo contributo della chimica organica alla distruzione dell’equilibrio naturale fu data nel 1840 da von Liebig, ma un passo fondamentale fu quello compiuto da Fritz Haber che ricevette il Nobel nel 1920 “per aver migliorato gli standard dell’agricoltura e il benessere dell’umanità”. La capacità di fissare l’azoto atmosferico nel mondo naturale è, come noto, limitata, ma grazie al processo Haber-Bosch è possibile ottenere composti azotati di sintesi. Haber fu anche l’inventore del gas Zyclon-B. Come diceva ironicamente DeLillo: “una vita migliore attraverso la chimica”…
Sicuramente grazie all’arricchimento sintetico del suolo si è riusciti a produrre molto più cibo e, secondo alcune stime, “due abitanti del pianeta su cinque non sarebbero vivi oggi senza il processo Haber-Bosch”. Come sempre è la gestione della conoscenza che determina i risultati visibili, la conoscenza in sé invece possiede un valore positivo. (E non lo dico solo perché anch’io ho pubblicato su una rivista che si chiama Current Nutrition and Food Science che appartiene alla categorie di riviste che l’autore stigmatizza. La chimica è una scienza affascinante).
Nella sua analisi dell’industria alimentare Pollan si scontra con la verità che sta alla base dell’intero processo: il mais (la monocoltura che ha radicalmente trasformato il paesaggio del Midwest americano) si trova praticamente ovunque: “un supermercato americano ha in vendita quarantacinquemila prodotti; più di un quarto di questi contiene mais, ivi inclusi articoli non alimentari”. E l’uomo? L’uomo ormai è “una pannocchia con le gambe”.
Nell’allevamento intensivo moderno viene usato il mais come elemento principale della dieta dei bovini, che per loro natura sarebbero degli erbivori; ricordate un’immagine di una mandria di bovini su un pascolo? Bene, dimenticatela. Oggi si è riusciti a convertire un ruminante in una macchina che trasforma mais in carne, ovviamente sono animali più esposti alle malattie, ma non c’è problema: l’industria farmaceutica sosterrà queste macchine fino al momento di macellarle grazie ai suoi potenti antibiotici ad ampio spettro.
“Il granturco ha il vantaggio di essere una fonte calorica concentrata che fa ingrassare le bestie in fretta e rende la loro carne marezzata al punto giusto, dotata di quel gusto e quella consistenza che i consumatori americani si sono abituati a gradire. Eppure è certo che queste bistecche di manzo tirato su a granturco (corn-fed) sono peggio per la nostra salute, perché contengono più acidi grassi insaturi e meno omega-3 rispetto a quelle di animali che si sono nutriti di erba”.
Va sottolineato che l’industria alimentare brucia un quinto del petrolio consumato negli Stati Uniti (ovvero quasi quanto tutte le automobili del paese). Questo si traduce nella devastante constatazione che sono necessarie “dalle sette alle dieci calorie di combustibile fossile per produrre ogni singola caloria che finisce sulle tavole americane”.
Michael Pollan si sposta nella parte centrale del suo saggio ad analizzare la catena alimentare biologica. Il movimento biologico nacque dalle idee di filosofi ed agronomi rivitalizzate dal movimento culturale nato alla fine degli anni sessanta. Il risultato sono un mucchio di dollari. Infatti i pionieri del settore siedono su comode poltrone all’interno del consiglio di amministrazione di aziende dal fatturato in stabile crescita. Come molti altri ex rivoluzionari in erba degli anni della contestazione hanno capito da tempo, anche per i signori del biologico “è il mercato che decide”.
E se abdichiamo dalle nostre scelte morali o riusciamo a convincerci che in fondo stiamo comunque facendo meno danni di quelli provocati attraverso l’industria alimentare standard, il mercato biologico offre un’alternativa valida. Catene di negozi come Whole Foods procurano al cliente un’esperienza culturale, che l’autore definisce “Arcadia da supermercato”. Opuscoli con verdi pascoli e fattorie, aie dove le galline razzolano libere. Ma sarà davvero così?
Indovinate.
Per essere certificato come biologico un allevamento di galline o polli deve fornire uno spazio minimo agli animali e garantire un accesso all’aperto e fornire agli animali un’alimentazione vegetale priva di pesticidi. In conclusione, Pollan entra in un capannone dove ondeggia un mare bianco di piume, migliaia e migliaia di galline, munito di una piccola porta che conduce all’esterno: peccato che le galline siano troppo timorose per avventurarsi oltre quell’apertura ed in pratica vivano sempre confinate nel loro spazio microscopico dove un sistema di pompe e canaline permette di ingozzarle di mangime ed acqua. Il biologico è servito.
“All’inizio alcuni agricoltori riuscirono in modo ammirevole a creare nuove catene alimentari nelle loro fattorie. I guai iniziarono quando questi si scontrarono con le pretese dei supermercati. Così come è accaduto in molti altri ambiti la logica naturale non ha resistito alla forza di quella industriale in cui si dà per assunto di base che una fonte di energia a buon mercato sarà sempre disponibile” L’industria alimentare biologica si trova perciò in una posizione alquanto scomoda: “galleggia su un mare di petrolio che si fa sempre meno profondo”.
Michael Pollan è un ottimo scrittore ed alterna vivide descrizioni a riflessioni altrettanto incisive. Oltrepassata la metà del libro, entriamo in un mondo diverso, dove la catena alimentare si fa più breve. Pollan descrive una settimana passata a lavorare presso la Polyface, una fattoria della Virginia. Joel Salatin gestisce la sua azienda alternando colture diverse sui campi e spostando frequentemente gli animali, ovvero bovini, maiali, e polli e galline. Tutti si nutrono pascolando sui prati. L’erba converte l’energia solare in calorie. L’impiego di combustibili fossili è limitato all’indispensabile. Tutti i prodotti della fattoria sono venduti in un raggio di centocinquanta o duecento chilometri. Gli acquirenti sono ristoranti, consumatori individuali che si recano alla fattoria o gruppi di acquisto (un fenomeno che si sta diffondendo anche in Italia, un gruppo di persone che sceglie di fare degli acquisti congiunti per spendere meno ed avere una migliore qualità). Il risultato di questa esperienza è una cena consumata con amici dove tutto ha un sapore migliore, in fondo quello che è buono per il gusto e la mente, è buono anche per il nostro corpo: una verità che risponde al dilemma dell’onnivoro ovvero “cosa è buono da mangiare?”
Nell’ultima parte del libro Pollan affronta la catena alimentare più breve: quella del cacciatore, coltivatore e raccoglitore. Naturalmente l’autore, che nella fattoria di Joel Salatin ha partecipato all’uccisione di alcuni polli, si pone il problema del vegetarianesimo. Pollan inizia a leggere “Liberazione animale” di Peter Singer al ristorante The Palm davanti a una costata al sangue: un’esperienza che non consiglierebbe a nessuno…
L’evoluzione ci ha portato a cibarci di numerose specie rese domestiche, che senza l’uomo non vivrebbero in natura, specie per cui gli animalisti in effetti non nutrono troppa simpatia. Per un animalista l’estinzione dei polli è preferibile alla loro esistenza come prigionieri in un campo di allevamento intensivo. Ma Michael Pollan è stato alla Polyface e sa che l’allevamento non significa necessariamente sofferenza.
Non si può dire lo stesso del mondo naturale: “se un orso mette le grinfie su una pecora che allatta, se la sbrana viva, cominciando dalle mammelle. No, in genere gli abitanti del bosco non muoiono senza sofferenze circondati dall’affetto dei loro cari”.
La nostra evoluzione ci ha resi ciò che siamo: “Dovremmo perlomeno riconoscere che il nostro desiderio di mangiare carne non è, come pensano gli animalisti, una semplice predilezione gastronomica. Con lo stesso ragionamento potremmo definire il sesso, che oggi non è più strettamente necessario alla riproduzione, solo una preferenza nel modo di divertirsi. No, essere carnivori è qualcosa di molto più profondo”.
Inoltre, nella catena alimentare che ha plasmato il mondo, l’allevamento, e non parlo di allevamento industriale, ha svolto un’azione fondamentale. E’ altamente improbabile riuscire a costruire un’agricoltura sostenibile senza la presenza di animali, che mettono in circolo sostanze nutritive e tengono in piedi la produzione locale. “Se ci preoccupiamo per la salute della natura, più della coerenza delle nostre scelte etiche e dello stato della nostra anima, mangiare carne potrebbe essere quanto di più morale possibile”.
L’ultimo pasto descritto da Pollan comprende prodotti provenienti dal suo orto, prodotti raccolti, ovvero alcuni funghi e delle ciliegie, e infine un maiale selvatico cacciato nei boschi.
La catena più breve e insieme quella più faticosa. Naturalmente la caccia è l’attività che suscita in Pollan i sentimenti più contrastanti e che lo spinge alle riflessioni più approfondite. Spaziando da Emerson a Ortega y Gasset ad Aldo Leopold gli argomenti si intrecciano e si rincorrono per molte pagine.
“Confesso che una parte di me invidia la saldezza morale del vegetariano, l’innocenza del mangiatore di tofu; eppure una parte di me ne provava compassione. L’utopia dell’innocenza dipende di solito dalla negazione del vero che è anche una forma di presunzione. Secondo Ortega è in un certo senso immorale non riuscire a guardare in faccia la realtà”.
La grande bellezza della scrittura di Michael Pollan è quella di riuscire ad elaborare dell'ottimo cibo per la mente con una sapore favoloso. Ed è ciò che ogni scrittore di saggistica in fondo dovrebbe fare. Genera idee, stimola il pensiero, ispira la creatività: “Il dilemma dell’onnivoro” è tra il miglior cibo per la mente che potete trovare in circolazione.

[1] Per l’interessante rapporto tra agricoltura e movimenti neonazisti o antigovernativi americani si veda l’eccezionale saggio di Joel Dyer “Raccolti di rabbia” (Fazi, 2002).