giovedì 24 dicembre 2009

The xx



"Sensual music is so rarely about dialogue". Sean Fennessey

Questo album (al terzo post nella classifica dei migliori lavori del 2009 secondo la Pitchfork Review) è quello di cui avete bisogno per finire l'anno in bellezza, certo non essere soli aiuta.
The xx sono un gruppo inglese che dopo qualche singolo finalmente debutta con il primo album in studio.
Melodie perfette e un basso ipnotico che trascinano via ogni canzone: colpisce al primo ascolto e non sembra finire di sorprendere con la sua bellezza malinconica e una dolcezza nascosta. Da non perdere.

mercoledì 23 dicembre 2009

Gelide scene d'inverno di Ann Beattie


Sono tutti così patetici. Cosa sarà? La fine degli anni Sessanta?

Uscito nel 1976, “Gelide scene d’inverno” è il lato romanzesco di Ann Beattie, famosa per le sue short stories. Sono gli anni del minimalismo, anche se l’autrice ricorda meglio i romanzi di Don DeLillo. Ed è a un’impronta minimalista che il libro si rifà: situazioni surreali, dialoghi ora taglienti, ora scombinati. Charles è il protagonista, e Ann Beattie dice “benché non mi senta di affermare che ‘Charles, c’est moi’, Gelide scene d’inverno è probabilmente quanto di più vicino a un’autobiografia mi capiterà di scrivere”.
L’amico Sam, con un lavoro al di sotto delle sue capacità, la sorella Susan, che frequenta il college ed è fidanzata con uno studente di medicina (per Charles è gay, divertente la scena del loro incontro). Beattie mescola il discorso diretto, i pensieri, le descrizioni rapide, persino i sogni che perseguitano Charles, innamorato di Laura (omaggio a Petrarca), la donna perfetta. Siamo nell’epoca del riflusso, a metà degli anni ’70. L’inverno è quello tra il natale del 1974 e il 1975. E’ un’epoca dove stanno scomparendo gli anni della contestazione e ci si avvia verso l’epoca di Reagan e Maggie. “-Cosa fanno oggi i ragazzi?- chiede Pete. -Non tanto- dice Susan -Nessuno fa più niente, o quasi. Secondo me non c’è più neanche tanta droga, all’università-”.
Tutto sta cambiando, anche i biscotti, per esempio gli Hydrox un tempo erano così buoni: “Lo zucchero. Probabilmente li fanno con meno zucchero”. E’ solo una delle tante percezioni dei protagonisti, figli di un’altra epoca. E probabilmente ad alcuni lettori capiterà di incontrare dei punti di contatto. D’altronde, superata una certa età, siamo tutti figli di un’epoca, che sembra scomparire. L’oggi a dettare nuove regole invoglia a rigirarsi nel letto e indugiare. Molti sono pigri come Charles. Non che voglia dire che Charles, c’est moi, non che voglia dire che un po’ non lo sia. Il protagonista trova continue corrispondenze tra la musica che scorre in sottofondo (anche il titolo è preso da un brano musicale) e ciò che accade. Oppure compare il ricordo di scene mai accadute: “Prima era stanco. Ora è stanchissimo”. In tutto il romanzo si sente l’empatia e insieme la distanza dell’autrice dai suoi personaggi. E’un romanzo splendido, ma non grandioso, raccolto intorno alla neve, alla pazzia, all’amore, a un senso di lealtà e amicizia che svanisce sotto i nostri occhi.
-Noi non ci incoraggiamo mai uno con l’altro. Dovresti incoraggiarmi a fare qualcosa - dice Sam. - E’ il 1975 e ti incoraggio a provare la pizza con i peperoni verdi, come piace a me-”.

venerdì 11 dicembre 2009

Le bambole sono tutte carnivore di Angela Vallvèy

Angela Vallvèy, scrittrice spagnola molto prolifica, pubblica per Guanda questo romanzo dal titolo accattivante.
"Le bambole sono tutte carnivore" è un libro che contiene molte cose, ma forse non riesce ad arrivare al punto, pur essendo frizzante e simpatico.
Sonia La Roja, psicanalista trentenne, single e con qualche chilo di troppo, snocciola la sua vita e, attraverso capitoli dedicati ai monologhi dei pazienti, ed altri ai suoi botta e risposta sulla rivista "Elle", cerca di far luce in quell'oscuro labirinto che è il rapporto uomo-donna.
Con il pretesto di dare voce ora alla zoologa Lorena - che osserva il mondo maschile con un punto di vista "animale" impietoso ed obiettivo - ora ad altri pazienti con piccole e grandi ossessioni, la Vallvèy tenta di dipingere l'affresco,
Il risultato, però, non è completo. Alla fine - mi dispiace dirlo essendo io donna - salta fuori il solito disegno: donne in crisi senza un uomo, donne belle che non riescono a trovare il giusto compagno a causa delle loro manie, uomini codardi, uomini piagnoni. La fiera dei luoghi comuni. E francamente mi sono stancata.
Se si è capaci di trasformare l'ordinario in straordinario - come potrebbero fare Carver, D'Ambrosio, ma anche la Munro - allora posso leggere anche 100 pagine che mi parlino delle "solite cose". Ma ci vuole profondità, incisività, spessore. Se mancano questi elementi, il tutto si riduce a qualcosa di "già letto", e il libro finisce tra quelli che tra pochi mesi ricorderai solo vagamente.
L'acume della protagonista si intravede, la spigliatezza della sorella si intuisce, il gioco della "corrispondenza" strappa più di un sorriso e fa mormorare - a volte - "eh, sì, è proprio così", ma questo non mi basta.
E soprattutto, mi dissocio alla grande da quella parte del popolo femminile che detesta gli uomini finche è single, per poi adorarli quando trova uno straccio di fidanzato (quindi non "quello giusto", ma proprio uno straccio). Queste donne anello-dipendenti sono ahimè credibili - è indubbio che anche al giorno d'oggi ci sia chi pensa che o ti fidanzi o non sei nessuno - ma l'amarezza è nel constatare che - alla fine - non sappiamo amare noi stesse. Questo è ciò che il romanzo fa emergere, il che non è consolante.
Ritenta, Angela. Sarai più fortunata.
(Chiara Biondini, dicembre, 2009).

giovedì 26 novembre 2009

Suttree di Cormac McCarthy


Per Knoxville l’autore transitò durante la sua vita, nato a Providence nel ‘33, a quattro anni era già nel Tennessee. Ed è in questa città, nel 1951, che fa iniziare il suo capolavoro, pubblicato, dopo anni di riscritture, nel 1979; l’incipit sul fiume può vagamente ricordare l’attacco dickensiano de “Il nostro comune amico” (anche qui compare un cadavere). Suttree è un protagonista che si presenta in maniera oscura, brevi lampi illuminano il suo animo, ma più spesso è avvolto dall’atmosfera cupa del paesaggio. Se “La Strada” appariva apocalittico e doloroso, probabilmente era perché il lettore non aveva ancora letto “Suttree”, un romanzo di perdizione e salvezza, dove si alternano dialoghi secchi e descrizioni barocche.
In alto, sopra il territorio più a valle, il fulmine vibrò senza un suono e si estinse. Il contorno illuminato di nuvole lontane. Una luce sulfurea. Ci sono draghi tra le quinte del mondo? La pioggia adesso cadeva più fitta. Una forte pioggia obliqua nella luce del lampione, che tagliava in due il quadrante dell’orologio. Tempaccio, dice il vecchio. E così sia. Che gli elementi della terra mi avvolgano, sarò sempre più granitico. La mia faccia dirotterà la pioggia come le pietre”.
Con il proseguire le immagini si fanno spesso ancora più cupe, svuotate di speranza come nella descrizione del mercato coperto che trovate a pagina 78, troppo lunga per poterla citare.
Suttree vive sul fiume e del fiume vive, pescatore con un tipo di barca detta “schifo”. Il Tennesse River è una sorta di Stige, “il fiume come un trematode gigante che si srotolava denso e infetto oltre le eleganti dimore della sponda settentrionale”. Suttree è uscito da una casa di correzione, ha un manipolo di amici, a cui sono dedicate molte pagine, ma la prima vera svolta è, nel romanzo, imposta da quell’inverno col termometro che scende vicino ai meno venti. Nella città congelata, Suttree prende al volo un tram, che però lo lascia al capolinea, dovrà tornare a piedi. Nel gelo più freddo della notte, Knoxville regredisce ad antico bastione di luci e ombre: “A ovest le luci di Knoxville tremolavano in una leggera penombra, come certamente le rovine di molte città antiche viste dai pastori sui colli, dai membri di qualche tribù barbara arrancanti lungo i sentieri”.
Nei racconti degli amici ritroviamo lo stesso malinconico attaccamento alla vita di Suttree e le stesse immagini che sconfinano nella poesia. Come in Gene Harrogate, il topo di città, l’ideatore di piani folli, accampato sotto un ponte: l’umanità profonda di Suttree si manifesta nei suoi rapporti con gli altri. Indiani esperti, neri in punto di morte o il miserabile Gene perso tra le grotte, sotto la città, alla ricerca della ricchezza: “Lo stoppino vacillò e si afflosciò con un sibilo esile e il buio si richiuse su di lui assoluto al punto che Harrogate smarrì i propri confini, grande come l’intero universo e piccolo come la più piccola cosa”. Gli attori di questa storia sono uomini che McCarthy riesce ad avvicinare al lettore come persone, più che come personaggi.
Nella vastità del romanzo compare anche un ritiro sulle montagne, una sorta di disintossicazione, popolata da allucinazioni e immersa nel paesaggio tra Knoxville, Cherokee e Bryson, North Carolina.

Poi si ritorna in città alle risse, alle sbronze, sfuggendo un arresto, ma non abbandonando mai gli amici: “Suttree alzò lo sguardo su di lui. Certo tu trascineresti a fondo anche il papa, disse.
Probabilmente lui nemmeno beve
”.

In McCarthy le descrizioni si aprono ampie nel respiro precise e ricche di particolari. E’ una lingua magmatica, potente. La scrittura non è mai in affanno. Riuscire a sostenere l’enorme materia di “Suttree” è un gesto eroico e da vero maestro. E’ uno scrittore che può ridisegnare lo spazio-tempo secondo una sua logica, inclinando il piano verso quelle “coniugazioni di spazio e materia verso quel centro immobile dove i vivi e i morti sono una cosa sola”.

giovedì 12 novembre 2009

Citazioni


A chiunque si sia perso negli infiniti modelli di realtà del mondo moderno, noi diciamo: Philip K. Dick era lì prima di voi”.
Terry Gilliam

lunedì 9 novembre 2009

Little Moon di Grant-Lee Phillips

Torna Grant-Lee Phillips, lo avevo lasciato al buon disco “Strangelet”, ma qui con “Little Moon” riprende sonorità vicine al capolavoro dei Grant Lee Buffalo “Mighty Joe Moon” (1994). Anche questo è uno di quegli album che si possono ascoltare e riascoltare dall’inizio alla fine senza saltare un verso, e poi continuare a riprendere in mano per anni. E sempre ad aspettarti trovi la stessa emozione. Qui si comincia con l’allegria di “Good Morning Happiness”, una nota strana, all’apparenza, per il cantautore dall’aria triste, ma che ricorda l’apertura dello splendido “Fuzzy” (sempre dei Grant Lee Buffalo, 1993) con “The Shining Hour”. Musica a volte sommessa, ma di grande impatto. Nel libretto troverete tutti i testi. Con Amazon.com è un disco che costa, comprese le spese di spedizione (con un trasporto medio ovvero 10 giorni), 15 euro. Ma si dovrebbe trovare anche nella grande distribuzione (non al supermercato, ovvio). La title track è un esempio perfetto dell’atmosfera intima e dolce che Phillips riesce a creare. Anche in “Blind Tom” il pianoforte accompagna un testo ipnotico, “here’s a little song/I learnt it from the wind”, che rimane a lungo nella mente dell’ascoltatore.
Bellissima la canzone seguente “One morning” con il suo refrain: “one mornin’ fore the sun rise/ one mornin’ fore the light/ one mornin’ fore the man old rooster has cried/ one mornin’ fore the trucks roll, blowin’ their horn/ we gonna take the whole world/ on by a storm”. In un'alternanza tra la melodia più sussurrata e l’esplosione di altre canzoni, “Little Moon” è un album completo, struggente e insieme ottimista, richiede all’ascoltatore solo quel minimo di partecipazione per trovare i tesori sepolti, neanche troppo in profondità, e farli brillare (la parola “shine” è un leitmotiv della produzione del cantautore americano): “under the moon one night/ carved in alabaster/ I want to see your treasure shine”.
Album stupendo, riascoltato già decine e decine di volte.


lunedì 2 novembre 2009

Via della Trincea di Kari Hotakainen

Hotakainen parte da una separazione, quella tra Matti e sua moglie e sua figlia, Helena e Sini, per affrontare il dilemma del trovare casa. In realtà Matti e Helena hanno già una casa, ma è un bilocale, lontano dal sogno di Helena di una villetta indipendente.
L’autore alterna vari punti di vista, così l’io narrante può essere Matti, che illustra il suo progetto e la sua situazione, oppure Helena, o i vicini di casa, o la polizia, o un agente immobiliare. In questa narrazione divertente e malinconica, con un grande ritmo, Kari Hotakainen non nasconde una critica molto dura al sistema di vita Finlandese.
Nella preparazione da stratega bellico, Matti si appresta a raggiungere il suo obiettivo e in questo percorso apprendiamo molto. La “villetta” ha il suo clan di sostenitori e anche il suo organo di stampa, “Casa Giardino”: in un articolo uno psicologo spiega i vantaggi del vivere in una villetta unifamiliare, la bellezza e la tranquillità del giardino fiorito. Altro elemento cruciale è l’essere un reduce, condizione che Matti stesso illustra: i reduci della Guerra avevano avuto diritto a un lotto di terra su cui far edificare una casa, Matti è invece un reduce del Fronte Domestico. Abilissimo nel cucinare, pulire, lasciare del tempo libero alla sua compagna e moglie è un soldato di quella guerra di liberazione dei confini o meglio dei compiti che definivano uomo e donna e che con il progresso e soprattutto nell’avanguardista Finlandia sono storia vecchia. Proprio il suo essere un reduce non riconosciuto alimenta la sua rabbia. La villetta, il suo acquisto, coincide per Matti con la riconquista della sua famiglia.
Tra vicini del condominio che sfiorano la paranoia, agenti immobiliari sull’orlo di una crisi di nervi, abitanti di villette disposti a tutto, Matti muove i suoi passi verso il sogno. Diventato anche un film, “Via della Trincea” è un romanzo di esilarante bellezza.
Alla fine quello che non ho capito è perché una persona dovrebbe volere una villetta a Helsinki: “D’inverno, poi, qui di cielo non ce n’è neanche un po’, l’alone delle luci nasconde le stelle e le gomme chiodate raschiano l’asfalto”. E sì, Helsinki non è Villasimius.

giovedì 15 ottobre 2009

Blog Action Day: Collasso di Jared Diamond

"Bush ha annunciato di voler combattere lo scioglimento dei ghiacci: per prima cosa invierà 20.000 soldati sul Sole" David Letterman
[Recensione scritta durante la seconda presidenza di George W. Bush]
L’estinzione della razza umana è al centro dell’opera di Jared Diamond: non stiamo parlando di un libro di oscure profezie apocalittiche (e vedremo che anzi il messaggio è in fondo positivo), Diamond, l’autore del fortunato e brillante “Armi, acciaio e malattie”, analizza vari esempi antichi e moderni di civiltà che si sono estinte o sono state sul punto di farlo; l’elenco non è breve: Anasazi, abitanti dell’Isola di Pasqua, i Maya, i Vichinghi della Groenlandia, il massacro del Ruanda. La lista continua. L’autore esamina con attenzione ogni evento, riportando tesi diverse. Le pratiche attraverso cui le società passate hanno messo a rischio se stesse con la distruzione del proprio habitat rientrano in otto categorie: deforestazione, cattiva gestione delle risorse idriche, gestione sbagliata del suolo, eccesso di caccia, eccesso di pesca, introduzione di nuove specie, crescita della popolazione umana e l’aumento dell’impatto sul territorio di ogni singolo di individuo. A questi otto pericoli la nostra attuale società somma: “cambiamenti climatici dovuti a intervento umano, accumulo di sostanze tossiche nell’ambiente, carenza di risorse energetiche ed esaurimento delle capacità fotosintetiche della terra”. Diamond nella peggiore delle ipotesi avanza lo scenario di una crisi globale con un futuro caratterizzato da standard di vita “significativamente inferiori a quelli odierni”. D'altronde l’autore è stato consulente per alcune aziende petrolifere, ha conosciuto il mondo dell’ecologia sia radicale, sia applicata dalle industrie stesse (perché un minor impatto ambientale significa meno danni da cause civili e alla lunga maggiori profitti… la cosa non vale per la Cina, a cui viene ovviamente dedicato un capitolo: l’immagine dei milioni di metri cubi di spazzatura che si accumulano nelle periferie di alcune città se non è apocalittica, attinge molto alla cupa rappresentazione del futuro di un autore come Philip K. Dick). Lo studio degli errori commessi da altre civiltà dovrebbe, a parere dell’autore, permetterci di compiere le scelte giuste ora.
Una grande differenza tra pericoli odierni e quelli del passato è data dalla globalizzazione, che sta al cuore delle ragioni più forti di pessimismo e di ottimismo circa la nostra capacità di risolvere gli attuali problemi ambientali. La globalizzazione impedisce che una società moderna possa crollare in isolamento, come successe agli abitanti dell’Isola di Pasqua. Un qualsiasi paese, non importa quanto remoto e in preda a disordini interni, può causare problemi alle società più prospere situate in altri continenti ed è a sua volta sotto la loro influenza, sia essa benefica o destabilizzante”.
In uno dei capitoli più appassionati del libro, Diamond spiega come i problemi del mondo siano problemi di tutti. Cita come esempio l’Olanda dove esiste una stretta interdipendenza tra tutti i segmenti della società, (il capitolo, non a caso, è intitolato “Il mondo è il nostro polder”) evidenziando una differenza netta con la società anglosassone:
Negli Stati Uniti, i ricchi cercano di isolarsi dal resto della società, utilizzano servizi privati, ma sono ferocemente contrari a un aumento delle tasse che permetterebbe a tutti di godere di tali servizi, pagati però dallo stato. I cittadini facoltosi si stanno ritirando in residence cintati e impenetrabili, si affidano a una polizia privata… Il presupposto di questa tendenza alla privatizzazione è l’errata convinzione che l’élite possa rimanere estranea ai problemi della società circostante: è lo stesso atteggiamento dei capi Groenlandesi che alle fine si dovettero rendere conto che l’unico privilegio che si erano assicurati era quello di essere gli ultimi a morire di fame”.
Uno dei problemi maggiori della nostra società è sapere fare le scelte giuste, purtroppo, ammette Diamond molti degli attuali governanti segue la cosiddetta “politica dei 90 giorni”, ovvero tre mesi sono il massimo orizzonte temporale da prendere in considerazione. Suppongo che con Bush si parli di “politica delle 90 ore”. Nella Repubblica Dominicana un personaggio assai discutibile come Balaguer è riuscito a ridurre l’impatto ambientale di molte industrie con leggi ferree e adottando metodi poco democratici, però l’autore, come chiunque giunga sulla ex isola di Hispaniola da un aereo, non potrà non notare una metà del territorio quasi completamente disboscata (Haiti) e una metà ricca di una lussureggiante vegetazione. Diamond cita altri esempi positivi, ma il caso di Balaguer gli permette di affermare una verità fondamentale: “Ci dà fastidio scoprire che qualcuno che ammiriamo per una particolare virtù, non è per altri versi altrettanto virtuoso. E’ difficile riconoscere che non siamo coerenti con noi stessi in ogni aspetto della nostra personalità”. Ho volutamente citato il caso di Balaguer, perché permette di illustrare la ricchezza di questo saggio: ormai possiamo leggere un romanzo di James G. Ballard come un trattato sociologico (si vedano “Millenium People” o “Regno a venire”), oppure un saggio profondo e ricco di informazioni scientifiche come un romanzo, nel senso migliore del paragone sia ben chiaro. Diamond riesce a essere interessante anche quando parla delle escrezioni fecali dei ratti attraverso cui è possibile ricostruire la storia di un particolare habitat. Alla fine della sua vasta opera, Diamond si dichiara cautamente ottimista: infatti noi siamo i primi a trovarci di fronte al rischio di un declino globale, ma siamo anche i primi “ad avere l’opportunità di imparare velocemente dalle esperienze delle altre società a noi contemporanee o del passato. Ecco la ragione per cui ho scritto questo libro”. Il problema effettivo sta in un avverbio: “velocemente”. La politica dei 90 giorni non ci rassicura, ma nemmeno il fatto che in Italia, dove come in molti stati i protocolli di Kyoto sono stati ratificati già da due anni, le emissioni di gas serra sono aumentate del 12% rispetto a quelle del 1990, mentre l’impegno preso era quello di ridurle del 6,5% rispetto a quelle del 1990… la conclusione è che ho fatto bene a visitare Amsterdam due estati fa. D'altronde, come diceva Woody Allen: “Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi progetti”.

sabato 10 ottobre 2009

Il maledetto United di David Peace

La storia è quella di Brian Howard Clough, giocatore e poi allenatore, circondato da un’aurea mitica. Partito da una squadra di terza divisione, approdato al Derby, dove ha imposto il suo gioco, la sua ossessione. David Peace racconta, da una parte i quarantaquattro giorni passati come allenatore del Leeds United, già vincitore del titolo nella stagione ’72-’73, dall’altra le tappe del percorso di Clough. L’infortunio che lo ha fermato a 251 goal in 274 partite di campionato. Poi la carriera da allenatore. La scalata verso la prima divisione. La vittoria del campionato con il Derby County. E poi quei quarantaquattro giorni. Però questa non è una storia di figurine e statistiche, di aneddoti e descrizioni. E’ un bollettino di guerra. Peace trascina il lettore nella sua scrittura anfetaminica. Leggo 20 pagine e ne voglio leggere 40. Ne leggo 40 e voglio continuare. Ho finito di lavorare tardi. Sono rientrato alle 11 di sera. Non mi stacco dal libro. Lo poso. E la cadenza della prosa di Peace mi martella il cervello. Nella notte. Attendo l’oblio del sonno. Non posso non ricordare. La stagione è quella del 1973-74. 1974. Un anno. Un titolo. Il primo volume del Red Riding Quartet. E la città. La stessa. Leeds. “Spunta il sole, ma la pioggia non smette. Oggi niente arcobaleno. Non qui”. Il suo primo romanzo lo ricordo. “1974”: un pugno nello stomaco. I volti esangui intorno. Il ritmo telegrafico di Ellroy, la paura di un bambino cresciuto nello Yorkshire, l’epoca scandita dai crimini che lo circondano: qualcosa di terrificante nei rivoli della pioggia, nelle nuvole in cielo. La scossa del whisky a stomaco vuoto. Niente di male. Ma sono le 7 del mattino.
Peace non si può descrivere. E’ un autore che assorbe ogni energia. Trascina. Corre. E’ l’opposto di Mazzantini e dei suoi lettori. Di Lilin e dei suoi lettori. Di Canin e dei suoi lettori. Degli scrittori fasulli e delle loro schiere di appassionati. Ossa fragili per sorreggere gangli nervosi in corto circuito. Una folata di vento per abbatterli. Non basta. Sono troppi. Troppo tardi. Un cancro metastatizzato. Abbiamo solo palliativi. Abbiamo solo la vera letteratura. E ancora non basta. E non basterà mai.

Il maledetto United” è un romanzo tormentato in ogni riga, il campo è un luogo di guerra. I destini si decidono sopra il manto erboso. Peace non vuole essere epico. Non c’è niente di epico. L’epica è una favola per cervelli bruciati. Brian Clough puzza di brandy e sigarette. Odia la sua squadra. Odia gli arbitri comprati. Odia il gioco sporco “del fottuto, maledetto Leeds”. Appena arriva brucia la scrivania del precedente allenatore, Don Revie. Brucia i dossier sugli arbitri. “Fortuna, allora, che ne abbiamo fatto una copia” gli dice Syd, il preparatore atletico. Don Revie, allenatore dell’anno, scudetti e trofei. Il manipolatore del gioco del Leeds. Il gioco sporco. La sua firma ovunque. “Non la mia squadra” ripete Brian. Solo il fottuto, maledetto Leeds. Come in Ellroy, anche in Peace la ripetizione impone il ritmo. La frase si spezza. La storia mai.
E con le parole, ormai dal sapore antico, “Coppa dei Campioni”, Peace si sposta nel 1979. Ci ricorda che, sebbene sempre mescolata a una punta di amarezza, la felicita è là. Per Brian. Per David stesso, che accompagna i bambini a scuola, e poi scrive e corre, per noi, sul filo della follia. Per noi, molti o pochi, ma non per tutti: maledetti fottuti idioti.

martedì 1 settembre 2009

Lo stato delle cose di Richard Ford. Se potete dirlo, può succedere.

Frank Bascombe, protagonista della trilogia di Richard Ford, ha ora cinquantacinque anni. Si è trasferito sulla costa, non tanto lontano da Haddam, città al centro dei precedenti volumi. E’ sempre un agente immobiliare, però è arrivato al Periodo Permanente quando “ti rendi conto che non puoi mandare tutto completamente a puttane, dato che tanta parte della tua vita è già stata scritta. Sei un sopravvissuto”.
Se si volesse tracciare una semplice collocazione temporale del presente dei tre romanzi, si potrebbe notare subito che il primo, “Sportswriter”, è legato alla primavera (la festività di Pasqua ricorre al termine del racconto), il secondo romanzo, “Il giorno dell’Indipendenza”, ovviamente, si svolge in estate (qui la festività è stampata a chiare lettere già nel titolo), mentre ne “Lo stato delle cose” (“The Lay Of The Land”), la festività è il Giorno del Ringraziamento: siamo in autunno.
Questo libro dapprima è stato a lungo sulla mia scrivania, poi si spostava in giro come un ricordo che faceva capolino tra i mille affanni quotidiani. Leggendolo, alla buon ora, ho potuto constatare che questa sensazione sfuggente, simile al ricordo (nel caso di Frank il ricordo della morte del suo bambino, un motivo che compare subito in “Sportswriter”), era proprio quella che Ford ha inseguito per buona parte del romanzo. “Lo stato delle cose” è un'affascinante immersione in Frank Bascombe, l’ultima che ci sarà concessa (non credo che l’autore sia interessato a seguirlo fino alla bara, in un libro “invernale”): forse anche questa sensazione di malinconico commiato da una figura tanto comune, eppure incredibilmente ricca di idee, ripensamenti, discorsi, dispiaceri, scuse, ricordi, amori, fughe, ironia, dolore, questo commiato, dicevo, contribuisce a far centellinare ogni pagina. La scrittura di Richard Ford aiuta: con i suoi movimenti browniani, la sua incessante revisione di ogni cosa; Frank Bascombe dopo tre romanzi è ormai una parte del lettore, o forse è il lettore, che da sempre è stato parte di Frank. E’ un romanzo straripante che riflette la personalità di un protagonista che non farebbe mai il test della verità “non perché io menta, ma perché riconosco come possibili troppe cose”.
Nel seguire gli spostamenti tra una città e l’altra, tra un ricordo e l’altro, tra una verità e la sua correzione o una sua versione più chiara, ci trasformiamo in esseri in perenne stato di transizione, in bilico tra le emozioni. Anche il Periodo Permanente di Frank dovrà avere la sua revisione.
Lo stato delle cose” è una lettura non epica e proprio per questo un vero capolavoro. L’autunno del 2000 con il riconteggio dei voti in Florida è uno sfondo più che simbolico per un romanzo pubblicato in originale nel 2006: il senso del confine incerto di un uomo e di una nazione si fondono, ma, lo si è detto, Richard Ford non è uno scrittore epico, è solo uno scrittore. Grandissimo.
Nei suoi mille spostamenti, il romanzo, lineare nella trama principale, si abbandona a una corrente vitale straordinaria, qui la “felicità è un mucchio di balle. Felice è un pagliaccio, il personaggio di telefilm, la frase di un biglietto di auguri. La vita, però, la vita è qualcosa di più impegnativo. Ma è anche meglio. Molto meglio. Credetemi”.
Richard Ford sottopone Frank a non pochi scossoni, le sue convinzioni ci avvincono eppure, l’autore non vuole fermarsi, qualcosa esiste ancora poco oltre il nostro sguardo. Non è ancora finita. E allora, come Frank, torniamo sui nostri passi, rileggiamo le stesse pagine, riavvolgiamo il nastro, e infine ci rendiamo conto che, come in tutti i nostri precedenti incontri con Bascombe, siamo stati troppo vicini alla vita, ne abbiamo perduto il senso. Tutto quello che deve ancora venire, tutto quello che ci è stato tanto caro ed ora è scomparso, volteggiamo tra i frammenti… boccheggiamo nella marea del romanzo fino all’ultima necessità quando l’Atlantico si ritrae “viola e piatto, poi improvvisamente più scintillante. E ho pensato fra me e me, lì in piedi: questa è la necessità. Questa è la battuta in più: vivere, vivere, vivere fino in fondo”.

venerdì 7 agosto 2009

Zia Mame, di Patrick Dennis

Adelphi pubblica questo piccolo grande gioiello datato 1955. La storia della nascita di "Zia Mame" è quasi più affascinante del libro stesso, aumenta il suo mistero e il suo fascino, e fa sì che il tutto rimanga impresso a lungo, nella mente. In copertina troviamo il nome "Patrick Dennis", e leggendo il libro scopriamo che è proprio il nome del protagonista, un orfano che a 10 anni viene affidato all'eccentrica, istrionica, divina zia Mame Dennis. Quindi, ci diciamo, stiamo leggendo una storia vera. E' quello che pensarono anche nel 1955, ma adesso sappiamo che non è così. Patrick Dennis è forse il più famoso pseudonimo di Edward Everett Tanner III, un personaggio del tutto particolare che durante la sua vita ha scritto le cose più disparate nascondendosi dietro a maschere di volta in volta più ingegnose. Scrive libri firmandosi con nomi diversi, riuscendo addirittura a spacciarsi per una "scrittrice di intrattenimento". In questo senso, "Zia Mame" è il suo trionfo. Per anni i lettori sono stati convinti che da qualche parte Mame esistesse davvero, che fosse davvero così talentuosa, poliedrica, capace di calarsi in ruoli sempre diversi, mondana e splendida. Che poi il tutto sia un'invenzione di Tanner, poco importa, perchè il libro è - alla fine - bellissimo. Rimasto orfano ed affidato alla zia (una zia che - per inciso - viene descritta dal padre defunto come una delle cose peggiori che possano capitare), Patrick scoprirà un mondo completamente nuovo, trovandosi coinvolto in rocambolesche situazioni al seguito di quel ciclone che è la cara Mame. Perchè Mame è tutto fuorchè convenzionale: è esagerata, sopra le righe, egoista, ma anche saggia, affettuosa, e soprattutto dotata di un enorme amore per la vita. Ricalcando un articolo apparso su Selezione - proprio così, la rivista - che parla di personaggi indimenticabili, Patrick ci parlerà del Suo indimenticabile: una zia funambolica, confusionaria, dotata di un fascino irresistibile, insopportabile per le sue manie di protagonismo, per il suo assoluto voler essere al centro della scena, ma proprio per questo irresistibile. Mame non mente, Mame interpreta; può essere la perfetta Donna del Sud, ma anche una cosmopolita newyorkese. E' una signora dell'alta società, ma anche una volontaria che in tempo di guerra cerca di salvare poveri bambini prendendoli sotto le sue ali. In fondo, Patrick è uno spettatore, un comprimario. Mame irrompe nella sua vita, mandandolo in scuole dall'improbabile metodo "nudista", cercandogli la fidanzata, esortandolo, stupendolo, confondendolo, facendo l'unica cosa giusta che si può fare, e cioè prepararlo ad affrontare il mondo. Zia Mame è inarrestabile, c'è sempre ma allo stesso tempo sei tu che segui il suo ritmo, e sei fortunato se riesci a starle dietro. Quello di Dennis-Tanner è un libro spumeggiante, divertente, dal ritmo serrato. Si lascia leggere velocemente, fa sorridere e rende partecipi. Fu rifiutato da diciannove editori; quando alla fine venne pubblicato, vendette due milioni di copie (parliamo del 1955) e rimase per settimane nella classifica dei best-seller. Nel 1958 uscì il film interpretato da Rosalind Russel. Attenzione: non che essere un best-seller faccia di un libro un buon libro (vedi il Teorema di Giordano), ma qui siamo di fronte ad un piatto appetitoso, variopinto, speziato. C'è di che soddisfare anche i palati più esigenti.

"A proposito, ragazzo...". I suoi occhi erano di nuovo due spilli. "Prima di morire tuo padre ti ha mai parlato, o meglio, ti ha mai detto qualcosa di me?"
Siccome Norah mi ripeteva sempre che i bugiardi vanno all'inferno, mi feci coraggio e sputai il rospo: "Solo che eri una persona molto strana e che finire in mano tua era un castigo che non avrebbe augurato neppure a un cane ma che i derelitti non possono fare tanto gli schizzinosi e io altri parenti non ne avevo."
Zia Mame prese fiato, con calma. Poi scandì: "Che bastardo".
Misi mano al taccuino.
"La parola che hai appena sentito, tesoro, è bastardo" disse la zia con una vocina soave. "Si scrive bi-a-esse-ti-a-erre-di-o e per la precisione significa 'il tuo defunto genitore'. Adesso vestiti e andiamo."

martedì 21 luglio 2009

La città invincibile, Joseph O'Neill

"Mia madre, sebbene attenta, sebbene insegnante, non era incline a fornire indicazioni esplicite, e potrebbe effettivamente essere grazie a lei se per natura tendo ad associare l'idea di amore a una casa su cui è sceso il silenzio."

La città invincibile di O'Neill è New York, una New York spaesata e spaesante che accoglie i pensieri e le paure dell'olandese Hans. Che segue i suoi passi, che incarna i suoi desideri e le sue ossessioni. O'Neill costruisce un romanzo denso e bellissimo, con qualche imperfezione, ma forse è proprio questo a renderlo più tangibile. Hans si ritrova solo nella metropoli dopo un Undici Settembre che sembra aver mandato in pezzi anche il suo matrimonio. La moglie Rachel e il figlio Jake volano a Londra, e Hans si ritrova a vivere in un albergo in compagnia di angeli che vengono dalla Turchia e altri personaggi un pò particolari. Ma non è tutto qui. Il Chelsea Hotel è solo un tassello, una parte della storia. Che comprende soprattutto una strana amicizia cominciata sui campi da cricket. E' qui - sul terreno di un enorme passione comune - che Hans conosce Chuck, un poliedrico personaggio che viene da Trinidad e ha un sacco di idee, forse non tutte propriamente lecite, e alcune decisamente altisonanti, come quella di costruire a New York un enorme stadio da cricket che richiami migliaia di persone. Muovendosi tra tempi e luoghi, O'Neill scivola avanti e indietro, bisogna tenere il passo, seguire le riflessioni, i pensieri, le scelte di questo Hans che - per certi versi - potrebbe ricordare il Frank Bascombe di Richard Ford.
La parte migliore del libro, la sua essenza, sta proprio nel carattere di quest'uomo, così ben delineato, così nudo e vivo da essere quasi palpabile.
Ci sono periodi in cui ci si lascia vivere, altri in cui semplicemente ci si limita ad esistere. Poi ci sono i giorni fatti di scelte, dall'inizio alla fine, intrisi di quella consapevolezza che porta - alla fine - pace. Ed è questo che Hans cercherà di fare; cercherà di ritrovare un significato, un punto di arrivo, una costante in mezzo ad un mare di eventi dall'aria insignificante. Patenti, affari, giovani donne, loschi traffici, sentimento, amore. O'Neill dipinge e noi osserviamo. Colore, colore, colore, ancora e ancora. La soddisfazione finale sta nell'osservare un quadro che fa delle sue sbavature il suo punto di forza. L'umanità - in fondo - è dolcemente imperfetta.

"Quelle ore spese a pancia in giù non mi preoccupavano particolarmente. Davo per scontato che tutt'intorno a me, nelle lucenti scatole che trasformavano la notte in una fitta scacchiera luminosa, innumerevoli newyorkesi giacessero sul pavimento, abbattuti da sentimenti analoghi. O se non proprio orizzontali, quantomeno in piedi davanti alle finestre, come spesso facevo io, a osservare le nuvole invernali che cancellavano - così almeno pareva dal mio punto di osservazione - i grattacieli non troppo distanti"

sabato 20 giugno 2009

Nouvelle Vague, Malcolm Middleton e...

Il terzo album dei Nouvelle Vague (il titolo è semplicemente "3") è piacevole, ottime le interpretazioni, come sempre. Si parte con Master and Servant e si continua con Blister in the sun, tra una versione lenta di God Save the Queen e un'altra stravolta di So Lonely, il disco termina con Such A Shame. Copertina e soprattutto libretto sono pessimi (ho una copia con su scritto "ltd 3", magari esistono copie diverse): ma si vede che è molto cool rendere illeggibile il booklet coprendo le lettere con i titoli delle canzoni, e stampare i caratteri sbiaditi, sembra che l'abbiano messo in lavatrice.

Completamente diverso, anche nella stampa, il nuovo lavoro di Malcolm Middleton, ballate cesellate con cura di cui troverete i testi nel booklet (tutto in cartone come si usa fare da alcuni anni) belli in ordine. Un album rilassante "Waxing Gibbous", a tratti malinconico, ma che sorvola la tristezza. Ve la fa vedere da lontano, e voi siete rilassati altrove, ad esempio in una stanza con il vostro amore e magari anche con l'aria condizionata, bei libri intorno ecc. ecc.

E mi accorgo che non ho nominato altri acquisti come "New Tide" dei Gomez, un discreto lavoro, la seconda canzone rimane in testa, non ora perché sto ascoltando "Coming from reality" di Rodriguez.

Sixto Rodriguez ha visto la recente ristampa dei suoi album degli anni 70 (questo in particolare è del 1971 e contiene 3 bonus track), molto meglio della nota raccolta Sugarman. Qui si apprezza la bravura di questo Bob Dylan, nato a Detroit, ma di origini messicane. Un gran bel disco, da ascoltare.



Bello anche il disco di Neko Case "Middle Cyclone". Booklet senza testi, ma divertente. Un disco che scorre via con rabbia e poesia.


Le stesse qualità che si ritrovano, a tratti, nell'ultimo album di Ben Harper, "White Lies for Dark Times", bellissima la sesta canzone, "Skin Thin".

E per finire "Around The Well" di Iron and Wine, Sam Beam raccoglie canzoni apparse in colonne sonore ed EP fuori commercio: il risultato è un buon lavoro, se non ai livelli di "Our endless numbered days" o di "The Shepherd's Dog", questi due CD sono imperdibili per gli appassionati (un EP io l'ho ordinato direttamente dal loro sito, mi è arrivato da Athens, Georgia, mi hanno anche regalato una spilletta...).

lunedì 15 giugno 2009

L'infinito istante, di Geoff Dyer

L’infinito istante” si presenta bene fin dal titolo. Quale immagine più efficace per descrivere quello che è la fotografia? Un qualcosa di statico e dinamico, di presente ed eterno, un contenitore di vita, di storie, che rappresenta non solo ciò che viene catturato dall’obiettivo ma anche – e soprattutto – chi c’è dietro l’obiettivo.

Il saggio di Dyer conserva le caratteristiche del dinamismo; si sposta tra epoche, fotografi, immagini, stili. Ci sono elementi che creano un percorso, una via. Ci sono fotografi che catturano oggetti comuni – come un cappello o una panchina – e così facendo li fanno diventare simboli. Di un’epoca, di un dato momento storico. Di molti momenti, perché i fotografi si rincorrono attraverso gli anni, ed ecco che la panchina fotografata da Evans ricompare in una foto di Strand, ed è chiaro che non è la stessa (sono passati gli anni e sono diversi i luoghi), eppure lo è, perché il soggetto ritorna, si ricompone, riecheggia e ricorda. “Una sedia si può adattare all’ambiente in cui è inserita; una panchina resiste alla bufera, prende qualsiasi cosa la vita le abbia destinato. La sua visione del mondo è fissata, determinata, ostinatamente opposta al cambiamento, eppure impotente a resistergli. Si ha spesso la sensazione che le panchine siano spettatori che osservano scorrere il traffico umano.”

Il libro non è strutturato in veri e propri capitoli; piuttosto, ogni nuovo argomento è anticipato da una piccola citazione. Ed ecco che – prepotentemente – la letteratura si mescola alla fotografia. I poeti parlano delle immagini nei loro versi, sembrano descriverle, gli scrittori trovano ispirazione negli scatti degli artisti, si trovano a parlarne; a loro volta i fotografi leggono Wordsworth, Blake, ma anche Carver e Cheever, e scoprono nuovi modi per fotografare, nuove immagini da cercare, da creare. “Cheever commenta più volte la “qualità morale della luce” e la staccionata di Ormerod – rotta, bianca e brillante, mentre proietta solo ombre leggere – ne è proprio una prova. Nel mondo di Cheever i matrimoni vanno male, continuano, persistono, anche in seguito, quando sembrano crollare. scrisse Cheever nel 1958.”

La scrittura di Dyer è corposa, densa, le informazioni sono molte, si susseguono riga per riga. Si parte da un’immagine e via via si trovano collegamenti, espansioni, nuove forme e modi di vedere. Dyer riesce a farti notare quei piccoli dettagli che sembrano a prima vista insignificanti, ma che – spesso – sono quanto di più essenziale contenga la fotografia.

Prendiamo – ad esempio – “New York”, di Winogrand, 1968. Il cieco è certamente il soggetto dello scatto, ma altrettanto importante diventa la donna dall’aria “hippy” che sta facendo cadere una moneta dentro la tazza, così come la donna ben vestita dall’aria sera che sembra volersene scappare, nell’indifferenza più totale. Creano un micro-cosmo, un mondo che si è fermato in quel preciso momento per permettere a noi di osservarlo. Un altro fotografo si sarebbe concentrato su altri dettagli, fornendo un quadro completamente diverso, ma questo, queste persone, in questo modo, è ciò che Winogrand voleva che vedessimo. Ecco apparire l’infinito istante.

Non ci sono tecnicismi. Non aspettatevi di trovare dissertazioni su aperture del diaframma, ed esposizione, e scala di grigi. Dyer non è un fotografo, non è un tecnico, e non gli interessa soffermarsi su ciò che di meccanico la fotografia ha da offrire. Dyer è un amante appassionato, che dà voce alla sua passione cantandone i maestri. Per questo la lettura diventa un piacere, una sorta di lunga conversazione su quanto possano comunicare certe immagini, certi dettagli. Non c’è una successione temporale; si parla di foto scattate alla fine dell’ottocento per poi trovarsi, qualche riga dopo, nei tardi anni ottanta. Perché la fotografia è questo. Ferma il tempo, e allo stesso modo lo diluisce. “Le persone vengono fotografate, muoiono. Poi ritornano e vengono fotografate di nuovo, da qualcun altro. E’ una sorta di reincarnazione. […] In fotografia non esiste un . C’era solo quell’istante e adesso c’è quest’altro istante e nel mezzo non c’è niente. La fotografia, in un certo senso, è la negazione della cronologia”.

Il fratello di Kertész viene fotografato in un parco a Budapest, nel 1913, seduto su una panchina, così come l’uomo che Brassai fotograferà sulla Riviera nel 1936 e il gruppo multirazziale e fremente che fotograferà Winogrand a New York nel 1964. Panchine. Che diventano un filo comune, un’eco, un ciclo.

Le immagini sono anche uno strumento indispensabile per raccontare la storia. Lo scatto di Dorotea Lange della madre emigrante è diventato un’icona. Il simbolo umano della Grande Depressione. Ha travalicato l’istante in cui si è fissato sulla carta ed è diventato qualcosa di eterno, immutabile, un qualcosa che – anche solo intravisto – ci riporterà alla mente anni interi di storia. Non è incredibile pensare come tutta un’epoca possa condensarsi nei volti di queste persone?

I temi sono molti. Si parla di ciechi, soggetto bramato da molti fotografi, per il loro essere così distanti dal tutto pur essendovi immersi. Ma anche di mani, e staccionate, schiene, e cappelli. Scale, e letti. Finestre e colore. Ritratti, ed erotismo. Porte, interni, esterni. Foto scattate dalla finestra di casa, foto scattate attraverso il cruscotto di un’auto.

Il saggio si conclude con “quella parte spaventosa che c’è in ogni fotografia”: la guerra, il sangue, la morte, e dopo la morte? Chissà.

Il saggio di Dyer è un lungo viaggio, una lunga esplorazione, mette la voglia di approfondire, di cercare, di conoscere. Una volta chiuso il libro, la mente è piena non soltanto di fotografie, ma anche e soprattutto di coloro che vi sono raffigurati, e – potenti – coloro che hanno scelto di fare quelle fotografie, fermando il tempo, cristallizzando un frammento di storia, regalandoci infinite serie di infiniti istanti.


“E pensare che c’è stato un tempo, più di cento anni fa, in cui quel momento era adesso! E quella figura avvolta nel mantello, pure quella figura deve aver avuto il sospetto di un che diventa . Quando ha attraversato la strada e ha oltrepassato l’uomo con la macchina fotografica, di sicuro deve essersi voltato indietro per vedere cosa sarebbe stata la foto, solo per scoprire che l’unica cosa – lui stesso – a definirla come un’immagine, un istante, non era più lì. In pochi secondi è arrivato ed è andato via, rimangono solo le sue impronte; è il suo destino speciale – o così sostiene la fotografia – non arrivare mai a quel punto privilegiato in cui ci si volta e si guarda all’indietro, ma essere invece rappresentato, in un istante e per sempre, paziente come il cavallo che aspetta e come gli edifici che sono ancora lì.”

martedì 9 giugno 2009

Harry, rivisto di Mark Sarvas


Non è di suo gusto, ma il gusto di Harry non è mai stato un problema. Non si può dire che abbia gusto, bensì un grumo di inclinazioni poco congruenti, ognuna delle quali facilmente negoziabile e di fatto negoziata quasi quotidianamente”.

Nel suo romanzo d’esordio (ma l’autore ha poco più di quarant’anni), Mark Sarvas compone un ritratto divertito, commovente ed estremamente acuto di Harry Rent, radiologo californiano. La recente perdita della moglie Anna è l’evento che dà il via a una serie di cambiamenti. Harry vuole cambiare: da qui il titolo, “Harry, rivisto”. Una sorta di Harry nuovo, di Harry.2.
Purtroppo, come dice Harry a un perfetto sconosciuto, in una delle tante scene surreali del romanzo: “i tempi bui vanno attraversati per superarli”. E, attraverso i ricordi e i pochi giorni che separano il funerale dalla lettura del testamento (il presente del libro), Harry si rivede. E’ dell’autore una definizione dell’umorismo che può spiegare in parte il fascino di “Harry, rivisto”:
L’umorismo è un costante apprezzamento dell’assurdo. Con un pizzico di rabbia”.
Harry nel suo percorso di rinascita vuole seguire le orme di Edmond Dantès. Divertente, come molti altri passaggi, la scena in libreria dove deve scegliere tra l’edizione ridotta o integrale de “Il Conte di Montecristo”.
La sua passione per Molly, cameriera al Café Rétro, è commovente nella sua ingenuità. L’ingenuo perdente farà la sua parte di errori, ma Harry è così. La prosa di Sarvas è straordinaria, ricca di termini colloquiali oppure dai significati stratificati o semplicemente fuori moda. Nel fascino dell’assurdo e nella rabbia che la vita accumula dentro di noi, i meno fortunati almeno, che poi spesso sono la maggioranza, è riposta la chiave per interpretare lo splendido romanzo di Mark Sarvas.

sabato 30 maggio 2009

domenica 17 maggio 2009

Nicolai Lilin. Reloaded.

[Questo post nasce da alcune osservazioni fatte a una breve stroncatura del volume “Educazione siberiana” di Nicolai Lilin su Cabaret Bisanzio consultabile direttamente qui].

Allora: quando leggo un libro (lavoro a volte anche il sabato), spero che sia un bel libro, leggere un libro brutto (ed Educazione siberiana di Nicolai Lilin è un pessimo libro), per me è una grande delusione. Non è invidia: io non sono uno scrittore. Powers, Everett non li conosco, e neppure Denis Johnson o Charles D’Ambrosio, ma hanno scritto capolavori, e non ho problemi a dirlo quindi? Non mi hanno pagato per scriverlo, i loro libri li ho acquistati con i miei soldi. Non è una questione di invidia: se uno scrive un libro pessimo, dove alla struttura paratattica subentra una rete mortalmente noiosa di sottotrame inutili, lo dico, basta, non ci sono altri sentimenti.
Mi interessano tante cose dai saggi di chimica a quelli di cucina, anche la cultura siberiana: però a raccontarla deve essere una persona in grado di scrivere.


Un esempio per capirci sulla questione dello stile e per spiegare perché Lilin non è uno scrittore: se uno ha in mente un’idea davvero originale e strabiliante per il SOGGETTO di un film, ma non sa neppure accendere una telecamera, non si mette a fare il regista. Il risultato, a prescindere dal soggetto, sarebbe pietoso.
Non è che un mattino, uno si alza e dice: “Oggi faccio lo scrittore (o il regista)”. Se non è certo necessario frequentare “scuole”, è però indispensabile aver letto tantissimo e aver scritto molto (tante cose che solitamente finiscono nel cestino). Cronenberg è un regista con anni di esperienza. “Redacted” di De Palma è un capolavoro (usa anche le riprese sgranate delle telecamere di sorveglianza), ma De Palma ha iniziato a fare cinema più di 30 (TRENTA) anni prima che Nicolai Lexotan nascesse. Cito “Redacted” per via dello stile usato, perché alcuni hanno voluto vedere nella prosa di Lilin uno stile “genuino”, ma lo cito anche per i contenuti molto duri. Stilnox Lilin sta già scrivendo il secondo romanzo. Purtroppo nessuno gli ha spiegato che la sua prima prova era buona, al massimo, come esercizio da tenere nel cassetto (e se avesse perso il manoscritto o il cd sarebbe stato anche meglio).
Ora due esempi ideologicamente lontani, ma simili nella sostanza. Massimo Citi, scrittore, editore, libraio ecc. nel suo blog definisce “un mezzo pacco” il libro di Lilin e, oltre a un’attenta critica etica dei contenuti, dichiara:
Lilin vive in Italia da qualche anno e, teoricamente, ha imparato la nostra lingua abbastanza da scrivere un libro di 300 pagine.«Ma per chi ci prendete?», viene voglia di chiedere ad alta voce.”.
Paolo Bianchi su "Il Giornale" esprime un parere forse più negativo e sarcastico, ma il succo è quello.

Per riprendersi... un video dei Camera Obscura dal loro ultimo, splendido, album, "My Maudlin Career" (e una citazione da Charles D'Ambrosio che, a differenza di Lilin, è uno scrittore):




Mi sentivo come una marea che saliva insensatamente contro il frangiflutti di decenza che mio padre aveva eretto con la sua vita. Mi tornò il panico, mi mancò il fiato. Mi vedevo correre per il quartiere, affannato, sbuffante, e pensai a come mi sentivo lontano dalla felicità, eppure… correvo fino a riempirmi i polmoni, quasi che l’eccitazione stessa li gonfiasse come mantici, e il cuore mi batteva fino a scoppiare, le gambe mi facevano male, la pancia pompava e succhiava aria fredda e umida, correvo fino a che il sangue non mi batteva nelle orecchie e anche ora, seduto sulla veranda dietro casa a bermi una birra con papà, ancora sentivo quel rumore, ancora sentivo il rumore dell’essere vivo”. Charles D’Ambrosio, 1995 (trad. M. Testa, Minimum Fax).

sabato 16 maggio 2009

Real World di Natsuo Kirino

Il mondo reale è tutto quello che è al di là della vita come è ora. Quattro ragazze, uno studente che uccide la madre e poi fugge e coinvolge nella sua storia Toshi, Yūzan, Terauchi e Kirarin. Natsuo Kirino usa i punti di vista dei vari personaggi costruendo una storia lineare e insieme approfondendo i lati in ombra celati dalle ragazze e dallo stesso matricida. Tutti hanno segreti. Tutti mentono. L’analisi del romanzo è un breve condensato di vita sociale giapponese. La lotta per il primato, gli esami di ammissione alle università (che contano più della laurea stessa e che possono spesso decidere una vita), e il mondo. Il mondo reale è quello che si contrappone alla finzione, ma è anche molto personale. “Benvenuti nel mio real world” dice Terauchi. Oppure: “Ti porterò con me in un mondo diverso” con le parole del matricida. E’ il contrario della finzione: qualcosa che nella società giapponese si può avvicinare alla morte, all’irreparabile. Il testo è fornito di un ottimo glossario e di poche, ma essenziali note. "Real World" è un breve romanzo dove il noir si unisce alla critica sociale e al romanzo di formazione, con intensità, ma anche con toni silenziosi, quasi dimessi.

mercoledì 6 maggio 2009

Letteratura ed etica: a piccoli passi verso il nulla.

Il signor Palomar spera sempre che il silenzio contenga qualcosa di più di quello che il linguaggio può dire. Ma se il linguaggio fosse davvero il punto d’arrivo a cui tende tutto ciò che esiste? O se tutto ciò che esiste fosse linguaggio già dall’inizio dei tempi?”, Italo Calvino.

La narrativa era la mia lingua etica”, James Ellroy.

Credo che la narrativa, o forse meglio la letteratura contenga sempre una funzione etica: non solo riposta nelle parole, ma anche nella mente che sceglie di leggere quelle determinate parole. La scelta implica l’espressione di un valore etico. Il fatto che capolavori come “Albero di fumo” di Denis Johnson o “Il fabbricante di eco” di Richard Powers, oppure un classico come “Cutter e Bone” di Newton Thornurg siano, nel nostro paese, relegati a vendite minime e destinati a una difficile reperibilità, mentre Margaret Mazzantini (faccio solo un esempio), le cui opere non sono neppure buone per foderare la lettiera del gatto (ci ho provato), venda centinaia di migliaia di copie, ecco, questo fatto ha un significato etico evidente, che non credo sia necessario spiegare. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, sebbene molti occhi non riescano a vedere oltre il proprio naso.

domenica 3 maggio 2009

“Cenere d’uomo” di Nicholson Baker

Cenere d’uomo” termina il 31 dicembre del 1941. Baker procede accumulando notizie. Churchill che approva l’uso di bombe a base di gas sulle tribù dell’Iraq (era allora a capo della Royal Air Force). Franklin D. Roosvelt che vuole ridurre il numero delle matricole di origine ebraica a Harvard. L’uso delle fonti, lunghissimo l’elenco finale, è fatto in modo tale da costruire una marcia inesorabile verso la Seconda Guerra mondiale.
In punta di piedi, attraverso il documento e la sua manipolazione per ottenere un racconto, Baker arriva alla non-fiction in veste romanzesca.
Gli Stati Uniti si dimostrano un punto di snodo fondamentale per il loro ruolo su entrambi i fronti, europeo ed asiatico.
Negli anni Trenta gli U.S.A. hanno fornito aerei e tecnologia aeronautica a Inghilterra, Cina, Giappone e Germania.
Gli anni precedenti il pericolo hitleriano erano quelli del pericolo bolscevico e spesso la questione si mescolava al problema ebraico. Non è un mistero che la soluzione di un insediamento di una nazione ebraica in Madagascar o nell’Africa del Sud era stata affrontata sia dagli Stati Uniti, sia dall’Inghilterra. L’insediamento finale fu, per dirla con le brutali parole di un altro romanziere, “l’insediamento nell’atmosfera” (T. Krol, “Gli uomini delfino“).

Nel 1938 il Giappone acquistò in America 29 Lockheed Model 14 e ottenne il permesso di produrne delle versioni modificate. Il Model 14 era un aereo da trasporto, ma costruttori e acquirenti sapevano che quello che meglio avrebbe potuto trasportare sarebbero state bombe. Nel catalogo della Lockheed il Model 14 è definito “un’arma formidabile per una tattica di attacco o di difesa“.
Era il maggio del 1938″.
La cadenza delle date ricorre in ogni paragrafo a segnare il ritmo.
Dopo la Notte dei Cristalli non esistono più scuse. La Kristallnacht rappresenta il punto di svolta attorno al quale si annodano le sorti di più di un continente. Per Goebbels essa servì “per cristallizzare l’antisemitismo tedesco“.
Non fu tanto l’assenza di risposte, quanto l’assenza di volontà a trovarne ciò che segnò in maniera definitiva l’inizio della fine. Quando Franklin Delano Roosvelt impedì al progetto di accogliere profughi ebrei al di sotto dei 14 anni (al di fuori delle normali quote di immigrazione) di realizzarsi “era il 2 giugno del 1938″.

Il Castello di Hartheim fu uno dei luoghi principali di pulizia genetica dell’Aktion T4. Malati di mente uccisi e bruciati. L’abbrutimento del personale era uno dei problemi da affrontare: nuove misure, meno gravose per gli incaricati, saranno studiate dalle SS per risolvere il problema dell’eliminazione di numerosi soggetti durante l’avanzata verso Est. Lo Zyklon B sottoforma di cristalli fu per la prima volta impiegato per eliminare i pidocchi dagli abiti…

Il mondo vive immerso nelle informazioni. E Baker ritaglia frammenti. Centrifuga la Storia in una materia vischiosa. I ritagli di Nicholson Baker acquistano, col procedere della lettura, uno spazio doloroso nella mente del lettore.
Le atrocità sono state raccontate. Altrove. “Cenere d’uomo” è un libro dedicato a chi ha cercato, senza riuscirci, di evitare l’escalation della guerra e di salvare le vite dei profughi e non solo. Non è l’efferatezza dello sterminio, di cui si intravedono gli oscuri inizi, il tema centrale, argomento del libro è tutto il resto.
Baker si fa strada attraverso un complesso e non funzionale elenco di eventi. E’ tutto immerso in un caos apparente. E proprio questa “apparenza” è resa in modo perfetto da Nicholson Baker. Il racconto possiede una forza che è data dalla capacità di scegliere e seguire con un ritmo serrato gli eventi. Dall’offensiva della Royal Air Force in Iraq alle peregrinazioni della famiglia Susser: tutto è importante. Tutti i passi per arrivare di fronte ai cadaveri dilaniati dalle bombe, di fronte alle docce, ai forni. "Il titolo del libro deriva da un’espressione di Franz Halder, un riottoso, ma condiscendente generale di Hitler. Halder, durante un interrogatorio, disse che, quando fu rinchiuso ad Auschwitz, verso la fine della guerra, vide fiocchi di cenere portati dal vento nella sua cella. E li chiamò cenere d’uomo".

domenica 19 aprile 2009

The Decemberists: The Hazards of Love


Con "The Hazards of Love" prende forma un racconto musicale che sfrutta melodie e testi per condurre l’ascoltatore nell’universo cupo e insieme brillante dei Decemberists. Il gruppo porta alle estreme conseguenze il discorso iniziato con "The Crane Wife". Racconti dell’orrore e di amore, passioni filtrate dal suono della chitarra e dalla voce di Colin Meloy. Come in “Tommy”, l’opera rock è un lavoro bizzarro di cuciture e incastri. Duetti e scene da musical si intervallano all’indie rock classico: il racconto è fiabesco e, come tutte le fiabe, tenebroso. Uno dei migliori dischi ascoltati in questo 2009 e, sicuramente, un raro concept album privo dell’eccessive spigolosità dovute dal maneggiare un’idea: la musica si piega con eleganza ai bisogni del racconto. Qui la passione è padrona.

mercoledì 15 aprile 2009

Un regno in ombra di China Miéville

“…nelle città ci sono milioni di fessure. Io riempio tutti gli spazi intermedi”.

Con il suo primo romanzo ambientato in una Londra di fine secolo (il XX) fatta di spazi grigi e intervalli invisibili, China Miéville inizia a mescolare i generi letterari (mystery, fantasy, mainstream). L’autore si prepara alla grande prova di bravura che sarà poi “Perdido Street Station” (ed. or. 2000), uno dei migliori romanzi degli ultimi anni.
Già il suo esordio “Un regno in ombra” (“The Rat King”, 1998) è un’opera affascinante. Miéville plasma una città dentro la città. Le capacità dell’autore riescono a creare suoni, odori e forme. Quando Saul inizia il suo apprendistato con Re Ratto, il lettore è introdotto in un mondo alternativo. Negli spazi tra le cose, nelle crepe sui muri, nella sbrecciata forma dei mattoni esiste un mondo vicino al nostro, dove il Pifferaio lotta per il potere assoluto, attraverso la musica (drum and bass e jungle trasformate dal suono del flauto). E i mondi si incontrano con Saul, creatura ibrida e punto di congiunzione tra le due realtà. Il romanzo è avventura, gioco, enigma, crescita, ma per prima cosa viene il mondo magico, l’altro, la realtà ulteriore.
Non è la meraviglia dell’idea (sfruttata molte volte dalla fantascienza o dal fantasy), quanto la meravigliosa scrittura di China Miéville a rendere possibile la magia. Il libro vive in questa alternativa architettonica e topografica e porta il lettore ad affrontare un’avventura sotto il cielo di Londra, “un cielo tutto di nuvole, una massa che si spostava veloce e i cui dettagli cambiavano, si modificavano e decomponevano lasciando invariata la totalità”.

mercoledì 8 aprile 2009

La voce del sindaco di Nathaniel Rich


Nathaniel Rich, giovane editor della rivista letteraria "The Paris Review", pubblica un libro che si presenta subito articolato, guizzante, come un pesce che non riesce a stare fermo. La scrittura è fluida e precisa, ridondante ma senza esagerare: Rich conosce la linea che separa la ricchezza espressiva dalla pomposità.
"La voce del sindaco" è un contenitore di storie, che si inseguono, si incrociano, giocano le une con le altre, come bambini in un cortile. Due i filoni principali: uno narra le vicende di Eugene Brentani, giovane figlio di italiani trapiantati in America, una passione per la letteratura e soprattutto per Constance Eakins, scrittore prolifico, visionario, cinico. Eugene lavora per una ditta di traslochi con Alvaro, personaggio quantomai singolare - dalle mirabolanti doti seduttive - che sostiene di aver scritto un meraviglioso romanzo in un linguaggio che nessuno riesce a capire. La vita del giovane cambia quando casualmente entra in contatto con Crisholm, biografo di Eakins e suo grande amico. Da qui si dipana una storia che coinvolge il giovane in un amore folle per la figlia di Crisholm, Alison (ma anche Agata, Sonia, Alice), in un viaggio visionario verso il Nord Italia, in una carambola di avventure tra mito letterario e realtà, tra finzione e autenticità.
Eakins è morto? Eakins esiste? Sulle tracce della figlia di Chrisholm, Eugene troverà lungo la strada individui che sembrano usciti dalle pagine dei libri di Eakins, e forse (ma solo forse) è davvero così. Labirinti che portano verso una conclusione, o un nuovo inizio, solo la nostra immaginazione potrà completare il quadro.
Il secondo filone racconta una grande amicizia, un grande amore, di nuovo un viaggio, una ricerca: il vecchio Schmitz, perduta la moglie, si mette sulle tracce dell'amico Rutherford - vecchio compagno d'armi - partito per l'Italia e forse smarrito nelle nebbie delle trappole mentali.
Due storie senza soluzione di continuità, unite dall'ombra del mito, dall'amore per la scoperta, per le domande.
Inventiva, lucidità, intelligenza: un ottimo mix per affacciarsi sul panorama letterario.
Per chi ne avesse voglia, qui il link al sito di Nathaniel Rich: molto ben fatto, originale e curioso, raccoglie sezioni che contengono le copertine delle opere di Eakins, tracce della sua vita, frammenti, sempre a ricordare quanto sia labile il confine tra vita e letteratura.

"Ogni volta che riveli un segreto a qualcuno" disse Eakins, "una parte di te muore. Uno conosce se' stesso in base ai propri segreti. Se riveli tutto resti vuoto - solo una serie di fatti nella mente di altre persone. Per anni ho rivelato i miei segreti nelle mie opere. A volte direttamente, come nei libri di memorie, e a volte indirettamente, come nelle poesie e nelle opere di narrativa. Rivelo le mie perversioni più oscure, le mie colpe, la mia paura e la mia rabbia, anche se offrono di me un'immagine negativa e irrazionale. Mi stavo lentamente uccidendo..."

lunedì 30 marzo 2009

De Rosa: Prevention e Johnny Flynn: A Larum

Da Inghilterra e Scozia arrivano i dischi che sto ascoltando ultimamente: “A Larum” di Johnny Flynn and the Sussex Wit e “Prevention” dei De Rosa.
Flynn, già attore, compone un disco con echi folk, atmosfere ironiche, melodie di facile ascolto: che il titolo arrivi dal Middle English e che lui stesso sia stato attore shakesperiano sono elementi importanti. “A Larum” è un buon album di notevole profondità. Altrettanto profondo con testi curati e melodie sempre all’altezza è “Prevention”.
Gli scozzesi De Rosa (del Lanarkshire, per essere precisi) sono una band che ha esordito nel 2006 con “Mend”, ottenendo un buon riscontro nella critica. Questo nuovo album conferma le capacità di suonare un post-pop, una musica ormai contaminata da mille correnti e a cui è piacevole abbandonarsi.


domenica 22 marzo 2009

Cabaret Bisanzio


Il laboratorio di finzioni! Con sezioni su letture, visioni, suoni, e quello che più
vi piace, riapre dopo il giusto
letargo invernale.
E' primavera. Cambiate stile, seguite
Cabaret Bisanzio...

mercoledì 18 marzo 2009

Non parliamo la stessa lingua, di Todd Hasak-Lowy: l'ironia è Kosher


Todd Hasak-Lowy, già professore universitario di lingua e letteratura ebraica, esordisce con questa raccolta di racconti, e fa centro. Centro pieno. Mescolando elementi della tradizione ebraica, clichè del nostro tempo e piccole ossessioni comuni, crea veri e propri gioielli. Ha una scrittura particolare, non surreale ma istrionica, una scrittura che si sa spostare perfettamente da un registro all’altro, diventando ora caustica, ora commovente, mai noiosa. I sette racconti, molto diversi tra loro, sono accomunati da un’ironia tagliente, dissacrante, e soprattutto da uno sguardo lucido ed impietoso sui meccanismi che muovono le relazioni interpersonali.Ci sono veri e propri colpi di genio, come l’idea di alternare in un racconto un evento banalissimo e tragico come la perdita di un portafogli alla morte di milioni di persone a causa di un attacco nucleare. Un dolcetto stantio può dare il “la” ad un vero e proprio “attacco culturale”, un colloquio di lavoro può diventare un’analisi profonda della propria vita, il tutto senza – in effetti – rendersene conto. In questi racconti collimano così tante cose che è difficile scegliere cosa citare: l’inchiesta sul centro dimagrante – resa in forma di articolo di giornale, con tanto di note a fondo pagina -, lo scontro generazionale e culturale, la furbizia e la cattiveria, il dilemma morale e la più spontanea idiozia: tutto dosato sapientemente per non risultare mai artefatto. E’ strano ritrovarsi a ridere e commuoversi nello spazio di poche righe, ma Hasak-Lowy è molto bravo, ed è bravo soprattutto a non far pesare questa sua capacità: il mescolare il quotidiano con lo straordinario, la morte con la risata, i pugni e la droga con la sensibilità e l’intelligenza. I personaggi di Hasak-Lowy sembrano affogare nelle paludi delle loro ossessioni, sono uomini, ragazzi, adulti, tutti con un qualcosa che fa inceppare l’ingranaggio, tutti a cercare di venire fuori da quel grande pantano che chiamiamo vita. Il ragazzo protagonista de "Il compito di questo traduttore” è assolutamente credibile nel suo sacro terrore per il compito che lo aspetta, Larry (l’uomo del portafogli) è un perfetto esempio di middle class americana, talmente imbarazzante nella sua inadeguatezza da strappare più di una risata. La cornice che viene fuori da questi racconti può apparire – alla fine – desolante, ma va bene se questa realtà ci viene data da autori come Hasak-Lowy, dotati di intelligenza e, soprattutto, di talento.

All'inizio, una massa impressionante di dirigenti televisivi di New York e di Washington riprese il controllo e inspirò profondamente, una volta resisi conto di avere tutti gli occhi puntati addosso e che toccava a loro guidare l'America e il mondo nella comprensione di questa storia, toccava a loro riferire, delucidare, interpretare, fare chiarezza. Operatori, sceneggiatori e truccatori si misero stoicamente al proprio posto, con tazze di caffè fumante, motivati dall'atmosfera solenne del destino e del dovere, mentre le figure di autorità di ogni livello in tutte le case di produzione dicevano cose tipo "E' il nostro momento", "Teniamoci pronti", e "Forza ragazzi" .

sabato 14 marzo 2009

Noble Beast di Andrew Bird


Un album grandioso già prima di ascoltarlo, aprire lentamente le alette di cartone per scoprire gli scomparti con i porta CD (“Unless creatures” è un bonus CD strumentale) e la parte con un disegno ripiegato e un foglio con i testi. E dopo, naturlamente, ascoltare... Andrew Bird in “Noble Beast” manipola il suono pop trasformandolo in pura melodia, il fischiettare della sua voce a volte è l’unica linea da seguire per addentrarsi nelle canzoni. Tutte splendide: da “Oh No” a “Masterswarm”, con il suo favoloso cambio di ritmo, per passare attraverso “Tenousness”, con un testo che usa le parole per dare forma al ritmo e alla melodia stessa, oppure “Nomenclature” o la stupenda “Anonanimal”. Si potrebbero trovare similitudini, molte, un violino, un procedere che ricorda Thom Yorke, una aspra dolcezza che fa pensare a Leonard Cohen, ma “Noble Beast” è semplicemente un capolavoro, un album di eccezionale bellezza. Finito di suonare, “Noble Beast” continua a fischiettare le sue melodie ad evaporare nella stanza, e a impregnare superfici e oggetti.