martedì 15 giugno 2010

Non conosco il tuo nome di Joshua Ferris

Ci sarebbe da dire che, già dopo due romanzi, Ferris può essere inserito in quella schiera di autori americani che vedono in Richard Powers lo scrittore di punta, fuori dal brusio degli ultimi figli del postmoderno con Roth che, parlando di “fica”, pensa di essere ribelle o nuovo. Ma non lo dirò. Troppa materia e vita e pensiero in quest’opera: una tesi non basterebbe.

Il romanzo di Joshua Ferris contiene pagine straordinarie. Forse lo sono tutte. Tim è un avvocato. Tim soffre di qualcosa, una malattia senza nome. Può camminare per ore, per giorni. Può cadere poi in un sonno pesante e risvegliarsi non si sa dove. Le dita congelate. L’inizio è una scossa. Passando oltre il lettore si avvicina sempre più a Tim. L’autore vuole definire attraverso situazioni familiari oppure surreali, per la presenza della malattia, la vita come non ci è possibile immaginarla: è un quadro insieme astratto e realistico fin nei minimi dettagli. E’ la visione che il lettore non attende, comunicata attraverso un piano narrativo e uno viscerale. Cercare di accettare qualcosa di incomprensibile, una sensazione che è molto più profonda dell’accogliere la fede: le parole di Joshua Ferris in “Non conosco il tuo nome” (“The Unnamed”) hanno questo potere, ci conducono lì, su quel bordo ai limiti della vita e con tutta la forza che rimane in ogni singola cellula riusciamo a guardare oltre. Non è una visione che può lasciare indifferenti.
L’amore per la moglie Jane è un altro nodo fondamentale della trama: “Ciascuno scrutava l’essenziale mistero dell’altro, ma in quei momenti di silenzio si trasmettevano la comprensione di un mistero ancora più impossibile: il loro essere insieme, il riconoscimento reciproco che entrambi avrebbero sopportato le direzioni ribelli che avevano preso e che entrambi, malgrado la loro inviolabile separatezza, sarebbero rimasti”.
Lentamente quello che inizialmente potevamo chiamare, con termini novecenteschi, male di vivere si trasforma in una rivelazione più profonda. Tim combatte contro il suo corpo, contro le marce imposte: “Vai avanti in eterno. La tua singola nota ripetitiva, è pesante”. Il breve lampo che coglie il bambino davanti allo specchio è moltiplicato per mille, per milioni. Questo è “Non conosco il tuo nome”: il corpo, la malattia, la vita, la morte affrontati con un approccio mai visto, sentito, Joshua Ferris è in grado di modulare le parole fino ad arrivare ai quadri finali. Paragrafi che si fanno più brevi. Anche alla fine, nelle ultime pagine, Ferris riesce a rendere tutte le sensazioni di Tim in modo tanto vivido da far sentire lo strisciare di una lacrima o il senso stesso del desiderio. Materia e pensiero. Non ho più posto dove stare, l’eterna condizione di Tim che lo pone in un mondo altro da questo (eppure è qui, questa è la grandezza dell’opera) ci ricorda tutto quello che non dobbiamo dare per scontato. L’amore. La casa. Certo. E neppure un romanzo che è semplicemente un capolavoro.

Joshua Ferris, “Non conosco il tuo nome” (ed. or. 2010), pp. 349, 16,50 euro, Neri Pozza, 2010.