mercoledì 17 aprile 2013

Però un paese ci vuole di Giovanna Grignaffini (ma anche no)

Sulla soglia dei quarant’anni Francesca decide di tornare a Fontanellato, il paese dell’infanzia e della sua giovinezza. Il sottotitolo del romanzo è “Storie di nebbia e contentezza”. Siamo nella Bassa parmense e sulla nebbia non si discute. La protagonista e voce narrante ha ricevuto e continua a ricevere delle buste gialle vuote, che riportano solo l’indirizzo del luogo in cui si trova in quel momento e il timbro postale. Però un po’ di chiarezza, anche se c’è nebbia, ci vuole, allora Francesca ritorna a Fontanellato. Perché? Ve lo spiegherà, con molta calma, questo sfiancante romanzo, esiste infatti tutta una macchinazione che richiederà una buona dose di sospensione del giudizio da parte del lettore. Procedendo con la trama, abbiamo subito l’incontro con due cari amici Carlo, laureato in filosofia, come Francesca, e bibliotecario (che passa il tempo giocando a battaglia navale con l’assistente) presso la struttura pubblica di Fontanellato (è l’agosto del 1989 e i tagli al sistema bibliotecario avverranno dopo), e con Cinzia, parrucchiera (non ha potuto continuare gli studi anche per motivi economico-familiari, ma è sempre stata a fianco dei “compagni”). Si parla del ’68, di manifestazioni, movimenti, anche di terrorismo, però si rimane su un terreno insipido; il gruppo di amici di Francesca erano “quelli della parrocchia”, e a questa rivelazione mi prende una sorta di paranoia da “Emmaus” (se non capite cosa voglia dire, siete fortunati). Compaiono anche altri amici, che rimarranno comunque più defilati per l’intero corso della narrazione. Una serata commemorativa al locale “Blu Not” ricorda come la storia personale e pubblica di quegli anni sia stata scandita anche dalla musica (citazioni sono presenti ovunque, più o meno esplicite). L’autrice ribadisce più volte il concetto di una “colonna sonora” che accompagni la lettura. Il vero leitmotiv è comunque un altro… Carlo è il classico tipo da frasi storiche da dopocena e deve per forza condividere con tutti “la Weltanschauung sua strana”. Massime, moniti ecc. abbondano. Straripano dalla carta del libro. E il lettore per duecento pagine può commentare: “Ah, però…”. Dopo altre duecento: “Eh, però avresti anche rotto…”. Il risultato è fastidioso: un acufene vi accompagnerà per tutta la lettura. Al trio si aggiunge Franco, manzetto di trentadue anni senza deficit erettivi, che permette di introdurre scene di sesso con Francesca, pudiche certo, sparse qui e là (sopra una coperta o contro un muro ecc.). E così ecco creata anche una tensione con l’altra donna del gruppo, la bella e disinibita (è un po’ zoccola) Cinzia. Non mancano i colpi di scena come l’apparizione di Cesare, il compagno di Francesca. L’apparizione la ricordo, sul momento in cui va via… non so, può darsi mi sia addormentato. Il romanzo cede troppo spesso a uno stile esasperato alla Bellonci. La chiusura con il morto, ovviamente, (fa molto “Il grande freddo”, ma la contrario) vede protagonista un’esoterica lezione dell’arte su un’opera del Parmigianino (il cicerone di questa pagliacciata finale, la ciliegina glassata su un involtino di verza, è Carlo). Abbiamo poi un piccolo guizzo lesbico (in effetti se ne sentiva proprio il bisogno, almeno per variare) e siamo al riconoscimento della salma, e, come passa in fretta il tempo (in realtà per il lettore no), le vacanze sono finite! Era ora! Dicevo dello stile: un continuo uso del drappeggio non crea per forza un risultato artistico, ma semplicemente un mucchio di pieghe. “Però un paese ci vuole” è un testo che è stato presentato al Premio Strega da Eco e La Capria e il romanzo con un editing, meno affascinato dal proprio ombelico, che avesse tagliato almeno cento pagine, sarebbe potuto essere un buon esempio di narrativa italiana: “Cominciavo a capire che avrei trovato tutto. Oppure niente. Cominciavo a capire che avrei saputo tutto in colpo solo. Un colpo di dadi per sapere tutto delle buste, di Franco, di Carlo, di Cinzia, di mia madre, di me e di tutti gli altri perché eravamo tutti figli di quell’incesto espanso che è un paese”.