domenica 29 giugno 2008

Il fabbricante di eco di Richard Powers: il quadro dipinto su una superficie liquida

Quando animali e persone parlavano la stessa lingua, i richiami delle gru dicevano esattamente ciò che si prefiggevano. Ora viviamo tra echi poco chiari”.

Lungo le rive del fiume Platte nel Nebraska ogni anno le gru si radunano in una tappa di una lunga migrazione verso il Nord. Un rito che si ripete da secoli. Questo essere strano, antico nella forma, presente in dipinti, poesie, racconti e leggende, rappresenta il legame verso la parte più profonda della nostra coscienza. Nello splendido romanzo di Richard PowersIl fabbricante di eco” (vincitore del National Book Award), Mark Schluter è vittima di un incidente d’auto e, a causa di una lesione cerebrale, sviluppa la sindrome di Capgras ovvero l’incapacità di riconoscere i propri cari: la parte di cervello che riconosce i visi è intatta, così come i ricordi legati a quei visi, però la parte che elabora le associazioni emotive non collega più tutti questi ricordi, questo amore od odio alla persona che si ha di fronte. E Karin, la sorella di Mark, è vista solo come un’abile attrice che interpreta la parte della vera sorella perduta, rapita, nascosta. “La mancanza di una conferma emotiva supera la ricostruzione razionale fatta dalla memoria. La ragione inventa complesse spiegazioni irragionevoli per colmare un deficit emotivo. La logica si affida ai sentimenti”.
Sembrerebbe di essere all’interno di un libro di Oliver Sacks, ma Powers inserisce nella trama anche il neurologo, e autore di saggi divulgativi, Gerald Weber, una figura che nei suoi contorni più sfumati può ricordare Sacks. La finzione romanzesca è completa.
L’opera di Richard Powers vive attraverso la rappresentazione di sentimenti profondi: come in “Galatea 2.2”, le strutture neuronali sono usate (qui in modo più diretto) per tracciare una mappa incompleta, di partenza sconfitta e insieme che sfiora la perfezione, dell’animo e delle sue manifestazioni.
Gli umani sono forse gli unici esseri a ricordare cose mai successe”. Non è necessario conoscere la fisiologia del sistema nervoso centrale per comprendere la narrativa di Powers. L’autore parla di persone, di storie, di dolori, di infanzie, di genitori che ci segnano per sempre nel bene e nel male. La frustrazione di Karin di fronte al fratello, che si rifiuta di riconoscerla per quello che è, la porta a cercare conforto in Daniel: “Era di nuovo in debito con Daniel […] che, come al solito, sembrava desiderare unicamente l’opportunità di dare. Di tutti i danni cerebrali più assurdi indicati dal medico scrittore, nessuno era strano quanto l’abnegazione”.
Il romanzo ha una sua trama ricca di intrecci, le complesse relazioni trai personaggi sono più di quanto si riesca a trovare in un’opera narrativa di buon livello. Ma Powers si spinge sempre oltre, il colpo di scena, l’ansia di un amore perduto sono tante sfumature di colore su un dipinto che vuole raccontare “il paese della perenne sorpresa. Il cervello nudo. L’enigma di base, a un passo dalla soluzione”.
D’altronde l’autore attinge alle parole di Lurija, che gli ricordano un tono quasi biblico: “Per trovare l’anima è necessario perderla”, oppure a quelle del grande Ramón y Cajal “i problemi scientifici non si esauriscono mai; si esauriscono solo gli scienziati”.
Le riflessioni di Powers, formatosi con una cultura scientifica e poi diventato uno dei più grandi scrittori contemporanei, sono troppo ricche per essere condensate in citazioni. Per fortuna Richard Powers non scrive per riempire una pagina o perché ha frequentato un corso di scrittura creativa, Powers scrive per svelare quell’anello che non tiene, che “[…] finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità”. Nella scienza fatta di esami sempre più precisi, di sinapsi, potenziali di azione, e neurotrasmettitori il termine psicologico sembra indicare solo un processo che non aveva ancora un substrato neurobiologico conosciuto.
Ogni esplosione di luce, ogni suono, ogni coincidenza, ogni percorso casuale nello spazio cambia il cervello, alterando le sinapsi, aggiungendone perfino di nuove, mentre altre si indeboliscono per mancanza di attività. Il cervello è una serie di cambiamenti in un luogo di cambiamenti speculari. Usa o perdi. Usa e perdi. A te la scelta, e la scelta ti disfa. L’io è un quadro dipinto su una superficie liquida”.
Di fronte al mistero più antico, alla parte più arcaica e magica del cervello, rappresentata dalla natura, dallo scorrere del fiume lungo il quale si fermano le gru, non ci sono parole: solo brevi leggeri dipinti di suoni. Vogliamo capire, possiamo capire, intrecciare le nostre vite a quelle degli altri, e in qualche maniera, apparentemente assurda, riusciamo a sopravvivere a tutto questo. Il racconto di Powers è una testimonianza, una prova di quanto sia giusto tentare: “E’ solo dicendoti le cose che le capisco anch’io”.

mercoledì 18 giugno 2008

A Virtual Landslide di Pete Molinari




Cresciuto in Inghilterra in una famiglia maltese con un padre egiziano, ma di origini italiane, Pete Molinari ha composto un album che già dalla copertina retro ci lancia in una lunga corsa nel tempo con i suoni della chitarra che accompagna una voce ricca di sfumature. Se il primo evidente paragone è con Dylan, il disco si apre con It Came Out of Wilderness che batte un ritmo da Subterranean Homesick Blues, poi le canzoni diventano più intense e personali. La chitarra e la voce ci sono sempre, ma dopo metà album, dopo Look what I made, entriamo in questo mondo parallelo dove la musica vive di una vita distaccata dal tempo e dalla moda. Se ascoltare un nuovo album di un giovane gruppo o un giovane cantante può ricordarci influenze e passaggi di altri autori, in questo caso il ricordo diventa solo una citazione all'interno di un'opera più vasta. Pete Molinari, che ascoltava Billie Holiday, John Coltrane e Bob Dylan, mentre nasceva il Brit-pop, semplicemente ricrea suoni e nel cantare su una trama folk inventa qualcosa di dolce, malinconico ed emozionante. Musica.

giovedì 12 giugno 2008

Io non ricordo di Stefan Merrill Block. Frammenti di genetica, ricordi, amori.

Il codice genetico, avvolto nella sua doppia elica, si apre e viene percorso da un enzima che ne riproduce la sequenza nucleotidica. I denti di questa delicata cerniera possono mutare. Caso e Necessità.

I luoghi in cui ho trovato la felicità sono stati tutti gli spazi incerti, provvisori, al di là della vita com’è e come dovrebbe essere”.

Non credo che lo dimenticherò. Stefan Merrill Block con questo suo primo romanzo riesce a fondere il racconto biografico-familiare, la digressione scientifica e il romanzo di formazione in un’unica opera, perfetta. “Io non ricordo” usa l’Alzheimer ad esordio precoce (in una variante inventata dall’autore) per raccontare la storia di Seth e Abel. Seth, un introverso ragazzo del Texas che cerca di ricostruire il mondo perduto dalla madre colpita dalla malattia. Abel, nella sua fattoria prossima alla demolizione, un vecchio che, invece, ricorda tutto. Le ricerche di Seth si alternano ai ricordi di Abel.
Accanto a questo mondo ce n’è un altro. E vi sono punti in cui si può sconfinare”. Naturalmente i racconti procedono in modo convergente, ma Seth, a cui è affidata anche la cornice che raccoglie l’intera opera, è il personaggio più fragile e coraggioso. Il bildungsroman è deformato dalla malattia, dalle digressioni cliniche: la sua essenza è comunque evidente; quando Seth osserva una goccia d’acqua al microscopio, la scoperta è chiara: “il mio mondo quotidiano, alquanto prevedibile o magari addirittura noioso, si svolgeva sopra la superficie di altri mondi milioni di volte più complessi e, a volte, incomprensibili”.
A legare il racconto familiare, insieme alla storia della malattia e delle persone che ne portano e ne hanno portato il gene, è il mondo magico di Isidora, un mondo che sopravvive nelle fiabe raccontate di generazione in generazione, un luogo in cui nulla si possiede e nulla può esservi sottratto, “un luogo in cui niente veniva ricordato e niente poteva essere perduto”.
Un romanzo che rincorre e fugge i ricordi, e che si confronta con coraggio con il dolore: un esordio unico, senza paragoni.

sabato 7 giugno 2008

Verso l'oblio



Rizzoli pubblica l'ultimo libro tradotto in italiano della serie con protagonista Charlie Parker, detto Bird.

Parker è per molti versi un personaggio tipico per questo genere di libri: detective privato, ha abbandonato la polizia dopo un tragico fatto privato, e si è rinchiuso in un guscio oscuro, malinconico, disilluso.
Naturalmente ha problemi con l'alcool, naturalmente è perseguitato da un passato che ritorna di frequente nelle sue indagini, e gli impedisce di godere appieno di ciò che il Destino gli mette tra le mani, sia esso l'amore di una donna, o la nascita di una figlia.
Spesso accompagnato da tipi poco raccomandabili, come killer a pagamento ed energumeni dal ridotto quoziente intellettivo, Parker si muove sempre sul filo dell'illegalità, scavando, scavando, testardo.
John Connolly è irlandese, e questo si percepisce - a tratti - nella scrittura che diventa morbida, ombrata, commovente.
Viene dato molto spazio all'introspezione psicologica, al passato, all'analisi di emozioni e scelte, e questa è una cosa abbastanza atipica, in un romanzo di questo genere.
In questa indagine in particolare, Parker viene assunto da una donna che dice di essere tormentata da uno sconosciuto.
Questo il punto di partenza per un'indagine che lo porterà faccia a faccia con vecchie conoscenze, sul limite della morte, a scoprire alcune cose, e lasciarne andare altre.
Parker si troverà a accettare compromessi, menzogne, si troverà a specchiarsi nell'anima del male per scoprire che la sua vi combacia quasi perfettamente. Il male è invitante, più vicino di quanto ognuno di noi possa pensare, e se questo è certamente un cliché, Connolly è bravo a non farlo pesare.
La storia vira lentamente - come già in altri libri della serie - verso una dimensione quasi soprannaturale, popolata da ombre che sussurrano all'orecchio per non farti dormire - e dimenticare. Fantasmi, forse, spettri di un ricordo che ancora non si è pronti a lasciar andare, oppure anime oscure, vuote, che vagano nel nostro mondo, come a sorvegliare, proteggere, forse minacciare.
A fine lettura, il libro risulta fluido, ha un'ottima costruzione della storia, riesce a spostarsi bene da un registro all'altro.
Scivola, da buon thriller, in qualche luogo comune, ma tant'è, questo non rovina la sua struttura.
E Parker è una buona compagnia.
Amara, forse, ombrata, ma buona.

22 Dreams di Paul Weller.



22 sogni...
Quando ho chiesto a Roberto (responsabile del reparto musica dove vado di solito) come fosse il disco, mi ha risposto che un suo collega lo aveva definito il White Album di Paul Weller.

Una cosa è certa. Questo è un LP doppio (il CD è singolo, ma non manca una versione deluxe): ventuno canzoni. Il sogno mancante si trova nel breve racconto di Simon Armitage all'interno della colorata e onirica copertina (The missing dream aka Dream #22).

Era dai tempi di "Illumination" che non sentivo Paul Weller cantare con questa emozione nella voce. Il lavoro di scrittura è stato certamente complesso, anche se non mancano i momenti poco riusciti, questi sono solo pause all'interno di un lungo, lungo sogno. La canzone strumentale dedicata ad Alice Coltrane è una piccola perla, dal ritmo ipnotico, con piano e tromba che si inseguono lunga una fitta trama di note.
E il tono cambia spesso, non ci si può annoiare. "Cold Moments" è una riuscita rivisitazione dell'atmosfera delle canzoni di Bobby Womack o Curtis Mayfield.
Graham Coxon collabora a "Black River" (b-side del singolo, scritto insieme a Coxon, "This Old Town" uscito nel 2007). Noel Gallagher appare in "Echoes Round the Sun", un brano ricco di suoni e contaminazioni. Se a volte Weller riprende lo stile di "Illumination", più spesso ci troviamo di fronte a brani inaspettati. Troverete molte gemme in questi sogni... a partire dal ritmo sudamericano di "One night star" al suono del piano notturno e drappeggiato dagli archi di "Lullaby Für Kinder" oppure alla canzone che dà il titolo all'album, sospesa tra Woking e la psichedelia di "I had too much to dream (last night)" (la citazione dagli Electric Prunes è evidente anche nel testo).
22 dreams: da non perdere.

lunedì 2 giugno 2008

La figlia del dottore di Hilma Wolitzer. E le aritmie del cuore.


La medicina ci permette di vivere, la poesia ci suggerisce come vivere”.

Alice Brill avverte che qualcosa non è come dovrebbe essere. E’ una paura confusa. “Lo sentii nel petto, dietro lo sterno dove si infilano le brutte notizie come pubblicità indesiderata attraverso la feritoia della porta”.
Dopo aver frequentato un corso di scrittura, Alice ha lavorato come editor, fino a quando, a causa di una fusione aziendale, non è stata licenziata. Ora è un editor freelance, raccoglie i manoscritti che le inviano e aiuta gli autori a migliorarli. E’ la dottoressa dei libri. “L’editing è molto simile alla medicina con i suoi processi di diagnosi, prognosi e trattamento”.
Il rapporto con il marito, Everett, è una linea di frattura che percorre l’intero romanzo. L’amore per i tre figli. La madre uccisa da un tumore. Il padre perso in un mondo dove le luci si spengono a una a una nella lenta regressione imposta dall’Alzheimer.
Il padre dottore. La madre bellissima e perfetta. E la figlia del dottore, Alice. La bambina cresciuta in una casa piena di affetto, e nei cui ricordi, come spesso capita, si cela un dolore, un’immagine sfuocata, nascosta dietro una porta.
Hilma Wolitzer ha impiegato dodici anni, nei quali ha perso entrambi i genitori, per superare un blocco creativo e la sofferenza nella scrittura è un’eco lontana, ma continua.
E’ una storia complicata, la bellezza dello stile la rende più vicina al lettore. Alice, la voce narrante, costruisce un contatto fisico tra le parole e chi le legge. Nel suo lavoro di editor a volte le capita di incontrare gli scrittori dei manoscritti che riceve. La visita di Michael, giovane autore di un romanzo che accompagna la storia di Alice, si rivela più di un semplice diversivo nella trama.
In un capitolo assistiamo brevemente ai preparativi di una cena, e tornano alla mente alcune pagine di Katherine Mansfield. Ma non è certo il primo nome che viene in mente leggendo “La figlia del dottore”.
Hilma Wolitzer sa usare una scrittura chiarissima e pervasa in ogni parola, in ogni sillaba dal sentimento. Il lungo flusso di parole di “Mrs Dalloway” di Virginia Woolf si illumina nelle battute finali: « “E’ Clarissa”. Si disse. Poiché ecco lei era là». “La figlia del dottore” offre più volte questi momenti, durante la lettura. Una sensazione di felicità sospesa, una traccia lasciata dall’idea di un peso vicino al cuore, un groviglio che all’improvviso pare sciogliersi dispiegando tutti i suoi lembi.
Alla fine del nono capitolo, il paragrafo che inizia con “E’ questa la felicità…” è un esempio perfetto di quei brevi lampi che trasformano tutto quello che si è letto, una frase all’apparenza banale diventa carica di significato per tutte le pagine e la parole che la precedono e insieme conferisce ad esse un valore nuovo.
E’ una storia complessa raccontata attraverso la bellezza, ma è l’intera esistenza ad essere complicata certo, strappata via, ma nella vita sono rari i momenti in cui possiamo guardare le nostre azioni con la serenità che la bellezza impone. La lunga gestazione del romanzo di Hilma Wolitzer è la prova concreta della fatica di questo processo.
La vita sembra terribilmente breve quando ci mettiamo a cercare tra la moltitudine di eventi quelli che ci definiscono meglio”. Trovare questi momenti non è semplice e riuscire a raccontarli attraverso la scrittura è qualcosa capace di far perdere un battito alle pulsazioni del cuore; in questa sua qualità il romanzo di Hilma Wolitzer, con la sua prosa limpida e appassionata, assomiglia a un lungo sospiro d’amore.

domenica 1 giugno 2008

Tre volte giugno di Julia Glass

Sto solo imparando a vivere”.

Julia Glass ha iniziato a scrivere questo romanzo quando aveva quarant’anni, come dice lei stessa, "ero ad un punto di svolta nella vita, ero appena diventata mamma, e avevo da poco pubblicato dei racconti, i primi ad essere accettati, dopo sette anni di rifiuti”. Bene, quando Julia Glass arriva a quarantasei anni finalmente esce “Three Junes”. La Nutrimenti, con la solita cura editoriale, l’attenta traduzione e una sana passione per la letteratura ha portato in Italia questo romanzo stupendo. Apparirà fuori luogo, parlarne ora, il volume è stato pubblicato a fine 2007… no, invece, perché gli editori come Einaudi da cui ci si aspetterebbe un’attenzione per opere così semplicemente belle, pubblicano il fantasy scritto da una ragazza tra i sedici e i diciassette anni. E da alcune parti si loda il coraggio editoriale, si grida al miracolo. Il romanzo di Julia Glass, il successo di collane come quella della Nutrimenti sono il mezzo attraverso il quale il lettore può esprimere il giudizio sulle scelte del mercato. “Tre volte giugno” è un romanzo sofferto, dolce, malinconico: «“La vita è così…”. Sospirò. “Complicata da altre vite”».
Tra Virginia Woolf e Jonathan Coe, e in alcuni punti E. M. Forster, ma senza quel velo di manierismo dovuto più che altro alle reiterate trasposizioni cinematografiche di Ivory. “Tre volte giugno” è un romanzo che nasce dai personaggi. Si lascia la lettura con un senso di nostalgia. Paul McLeod, vedovo, in viaggio tra le isole greche. Suo figlio Fenno, omosessuale, nella New York del Greenwich Village. Fern una pittrice americana, a Parigi, in Grecia, a New York che incrocia il suo cammino con gli altri personaggi. 1989, 1995 e 1999. La storia continua e si trasforma in ognuna delle tre parti di cui è composta l'opera. Julia Glass è nata a Boston nel 1956 con questo straordinario romanzo d’esordio ha vinto il National Book Award nel 2002. L’autrice ha detto: “quello che fanno gli scrittori di narrativa è costruire un talismano: prendono le gioie e i dolori più intensi, le crisi e i miracoli, e ponendoli in un cosmo parallelo conducono i lettori, in un viaggio, in un’avventura che li farà tornare alle loro vite con una maggiore consapevolezza di ciò che essi realmente sono”. Forse non sarà proprio così, ma dopo aver letto opere come questa, per qualche giorno posso anche crederlo veramente.