mercoledì 15 dicembre 2010

Jason Collett Rat A Tat Tat

Uscito vari mesi fa, Rat A Tat Tat conferma tutte le qualità dimostrate da Jason Collet nel precedente Here's to being here (un concetto chiaro direi). Un autore ironico e mai troppo ambizioso, cosa che nell'ambiente musicale porta a un discreto calo di interesse da parte dei media, un artista di altissimo livello e di basso profilo, in pratica può andare a spasso con il mitico Grant-Lee Phillips.


In the golden age of love's architecture
Shakespear was lying drunk in a ditch
scribbling out his rapture
or getting his pocket picked

he said, love is the subscribtion
passion's what its worth
greed is a conviction
love's a dirty word
you get hung and you get hurted
love is a dirty word

from a bird's eye view you can see it
It's sublime and it's absurd
you can buy it and you can sell it
but nobody's figured out how to make it work

you can talk about it like a lawyer
you can call it a crush
but in the end it's all buried treasure
underneath the mud
it brings down to earth
love is a dirty world

down the snakes and up the ladders
black eyed Mona is my cructh
the mission bell warned me of disaster
but I'm still waiting on the sucker punch

love is a dirty word
you get blind and you get burned
you get hung and you get hurt
but it brings you down to earth

lunedì 13 dicembre 2010

Poste Italiane e raccomandate (i).

Per Poste Italiane che una raccomandata sia recapitata in 5 (CINQUE) giorni lavorativi è normale. Allora, calma, alla raccomandata con avviso di ritorno (che non è gratis) si affidano atti per concorsi, certificati per malattia (che l'INPS, presumo, debba ricevere PRIMA che il lavoratore torni al lavoro) et similia, però per Poste Italiane rientra "nei protocolli la consegna entro 5 giorni lavorativi" (e sottolineano che non sono rilevanti i km: certo! Che io spedisca una lettera nella mia provincia oppure a Trapani non conta nulla...). La cosa che più mi ha lasciato perplesso è che l'addetto ai reclami non rispondesse con una mail intesa a infondere fiducia nell'italico servizio, ma se la prendesse, offeso, da tanta tracotanza (la mia: quella di chi pensa che una raccomandata non può impiegarci una settimana per arrivare a destinazione), riferendo con piccata precisione i protocolli da Medioevo (anzi non credo che nel Medioevo per consegnare un documento a 7 km di distanza impiegassero 6 giorni. Ma non avevano i jingle...).

domenica 28 novembre 2010

Josh Ritter So Runs The World Away

Mentre cercavo gli ultimi lavori di Jason Collett, ho trovato, con ritardo, un album uscito a marzo. Un misto di amarezza e melodie più dolci. Il leaflet contiene tutti i testi (da amazon.com 9 euro con la spedizione che è arrivata in meno di due settimane: pensare che hanno spedito un pacco da Milano il 15 novembre ed è stato fagocitato da Poste Italiane... la North Carolina è più vicina).

He opens his eyes
Falls in love at first sight
With the girl in the doorway
What beautiful lines
Heart full of life
After thousands of years, what a face to wake up to

He holds back a sigh
As she touches his arm
She dusts off the bed where til now he's been sleeping
Under miles of stone
The dried fig of his heart
Under scarab and bone
Starts back to it's beating

She carries him home
In a beautiful boat
He watches the sea from a porthole in stowage
He can hear all she says
As she sits by his bed
And one day his lips answered her
In her own language
The days quickly pass
He loves making her laugh
The first time he moves it's her hair that he touches
She asks "Are you cursed?"
He says "I think that I'm cured."
Then he talks of the Nile and the girls in bulrushes

In New York he is laid
In a glass covered case
He pretends he is dead
People crowd round to see him
But at night she comes round
And the two wander down the halls of the tomb
That she calls a museum
But he stops to rest
Then less and less
Then it's her that looks tired
Staying up asking questions
He learns how to read
From the papers that she is writing about him
Then he makes corrections
It's his face on her book
More come to look
Families from Iowa
Upper West-Siders
Then one day it's too much
He decides to get up
Then as chaos ensues he walks outside to find her
She is using a cane
And her face looks too pale
But she's happy to see him
As they walk he supports her
She asks "Are you cursed?"
But his answer is obscured
In a sandstorm of flashbulbs
And rowdy reporters

Such reanimation
The two tour the nation
He gets out of limos
Meets other women
He speaks of her fondly
Their nights in the museum
She's just one more rag now he's dragging behind him
She stops going out
She just lies there in bed
In hotels in whatever towns they are speaking
Then her face starts to set
And her hands start to fold
Then one day the dried fig of her heart stops its beating

Long ago on the ship
She asked "Why pyramids?"
He said "Think of them as an immense invitation."
She asks "Are you cursed?"
He says "I think that I'm cured."
Then he kissed her and hoped
That she'd forget that question

mercoledì 24 novembre 2010

Un caso per tre detective di Leo Bruce

Con lo pseudonimo di Leo Bruce, l’inglese Rupert Croft-Cooke, scrisse decine di polizieschi a partire dagli anni Trenta. In questo romanzo, per la prima volta, entra in scena il pragmatico sergente Beef, protagonista di altri sette libri, ma la caratteristica principale di “Un caso per tre detective” è un uso riuscitissimo della parodia. I tre detective del titolo non sono altro che le caricature di Lord Peter Wimsey, investigatore all’epoca molto noto, e poi Hercule Poirot e Padre Brown, interpretati dall’istrionico Amer Picon e dal catatonico Monsignor Smith.
La vena di umorismo che percorre l’intero racconto, un classico delitto della camera chiusa, si intreccia alla perfezione con una trama ricca di eventi e supposizioni. Alla fine il lettore avrà ben tre ipotetiche risoluzioni dell’enigma, a cui si aggiungerà quella del sergente Beef o, come dice Picon, “il nostro buon Boeuf”. Un romanzo che può essere un’ottima lettura oppure un regalo di Natale perfetto: se chi lo ricevesse, lo avesse già letto, tanto meglio per voi. Imperdibile.

Leo Bruce, “Un caso per tre detective” (ed. or. 1936), pp. 265, 13,90 euro, Polillo, 2010.

lunedì 15 novembre 2010

Goodreads sucks! Goodreads vs. aNobii

Dietro consiglio di un amico tento di creare un profilo su Goodreads (il social network per bibliofili che dovrebbe scalzare aNobii). Dopo 15 minuti mi oriento. Intanto vinco un gran premio con F1 2010 (Montreal), controllo gli orari dei treni, verifico gli scioperi, e dopo poco mi accorgo che inizia il mio turno di lavoro. Facciamo questo passo e importiamo la libreria, un link (ruffianissimo) mi dice che si può importare "senza stress"...
Compio le operazioni indicate e... sorpresa, il processo (che non è detto sia efficace sull'intero scaffale/libreria di aNobii) richiede 238 minuti! Ma lo sapete cosa posso fare io in 238 minuti? Forse se mi pagano ci ripenso, per ora il mio profilo su Goodreads è vuoto, a parte una foto d'autore intotalata Revolutionary Kitchen©, presente su vari profili pubblici (cabaret bisanzio, questo blog). Inoltre l'interfaccia non è affatto user friendly come la vogliono spacciare. Si tratta, in fondo, di business e le borse asiatiche aprono prima.

mercoledì 3 novembre 2010

L’isola dei naufraghi di Natsuo Kirino

Il naufragar, nelle pagine della Kirino, non è dolce per niente.
Questo libro, scritto nel 2008 e pubblicato nel 2010 da Giano, è un romanzo altalenante, ora pacato, riflessivo, quasi meditabondo, ora prepotente e ricco di azione.
La quarta di copertina è leggermente fuorviante; ci sono sì molti uomini naufragati su un’isola deserta, e una sola donna, e viene sì fatto un sorteggio nel decidere chi ne sarà il marito, ma tutto ciò è precario: già nelle prime pagine questa “routine” verrà sconvolta. Il tutto infatti parte dal rammarico di Sayako nel percepire che il quarto sorteggio per la scelta del suo nuovo marito è un evento del tutto ordinario, che scivola quasi nell’inutilità. Ove prima lei era desiderata, bramata, seguita, sognata, ora è semplicemente accettata, in certi casi ignorata.
Gli uomini si stanno rassegnando, lei non è più giovane, eccetera eccetera.
Nel prosieguo della storia, veniamo portati ora avanti, ora indietro, seguendo lo sguardo di personaggi diversi tra loro. Ognuno di essi porta con sé una prospettiva, ognuno di essi ci dà dettagli sconosciuti agli altri e così, in un gioco di prospettive, la storia si dipana, si avvolge su sé stessa, si distende.
Giapponesi, cinesi.
Leader ed esiliati.
Pazzi e santoni.
Sayako. Unica donna. Regina prima, traditrice poi. Comunque sempre al centro degli eventi.
La Kirino costruisce un universo racchiuso da barriere coralline, fatto di sopravvivenza, rimpianti, ricordi.
Qui manca quella sorta di inquietudine, di terrore serpeggiante, la sensazione che qualcosa di terribile stia per accedere. Il tutto è più un modo per descrivere, deridere, analizzare la società nipponica, i suoi limiti, i suoi stereotipi.
Non è un libro sopra la media, è un libro ben scritto che intrattiene senza stupire; le ultime 100 pagine, nelle quali le acque si dovrebbero increspare, sono un mero palliativo. Il finale, in fondo, è un qualcosa che ci si aspetta.
Poteva essere meglio, poteva essere peggio.
L’ordinarietà è tranquillizzante, ma la grandezza è altro.
(Chiara Biondini)

domenica 3 ottobre 2010

Jukebox The Ghost

You've got your guards and they've got their guns,
they're overworked and you've never ever won a thing in your life.
I've got my dreams and I've got my sleep
and I've been promised a pill that's going to keep these visions of
an empire at peace.
'Cause my heart is my keep and you are threatening me.

Oh my god, you're the one I've been holding out
for for so damn long.
And you're a far cry from an empire at peace.

I've got my knives and my heart up my sleeves,
but this weather is getting too nice for me to keep
an empire at peace.
'Cause my heart is my keep and you are threatening me.

Oh my god, you're the one I've been holding out
for for so damn long.
And you're a far cry from an empire...


martedì 21 settembre 2010

Omeopatia: non c’è nulla dentro

E’ noto che le diluizioni omeopatiche non lasciano assolutamente nulla all’interno del classico globulo o granulo (una base inerte di saccarasio e lattosio, insomma zuccherini), buttate una goccia di un estratto in una piscina olimpionica e ancora non avrete la diluizione giusta: ancora meno, ancora meno…
Mentre nel Regno Unito la commissione di vigilanza della Camera dei Comuni, poiché NON ESISTONO studi clinici accreditati che dimostrino l’efficacia del rimedio omeopatico, ha stabilito che è una cattiva pratica medica prescrivere un trattamento omeopatico (02/2010), nella stessa Francia, una roccaforte per la medicina del nulla, sono in diminuzione le prescrizioni omeopatiche.

Tra i vari articoli che dimostrano l’inefficacia del trattamento omeopatico rispetto al placebo vi sono i lavori pubblicati da The Lancet nel 2005 e nel 2007. I risultati conclusivi sono che il rimedio omeopatico rientra nell’efficacia di un placebo. E i bambini dicono molti? I bambini avranno un loro sistema immunitario… Non fare danni è la prima regola, per questo motivo, alle donne in gravidanza o ai bambini vengono spesso consigliati dai farmacisti rimedi omeopatici.
Il sito "Homeopathy: There's nothing in it" ha lanciato una campagna contro l’uso del rimedio omeopatico: numerose le adesioni di persone che hanno ingurgitato flaconi di varie formulazioni senza riscontrare effetti di alcun genere. Al sito vi rimando per approfondire l’argomento.

sabato 28 agosto 2010

Dan Simmons

Esce il nuovo romanzo di Dan Simmons, ma più che con l'agiografia del testo, pubblicata da Repubblica, voglio ricordare l'autore con un articolo di Carmilla:

Dan Simmons. Quando “scrittore” fa rima con “squallore” e con “delatore”

http://www.carmillaonline.com/archives/2009/01/002917.html

venerdì 23 luglio 2010

Stornoway, Zorbing

Conkers shining on the ground,
The air is cooler
And I feel like I just started uni
Walking backwards to my van
You're at your window,
And I'm tripping every time I think of

Lying in your attic
I can feel the static
The storm has broken, Heavens open

Send my body out to work
But leave my senses
In orbit over south east London
Wind the window down and pinch
Me on the shoulder
Whilst I'll be driving off to dream of

Lying in your attic
I can feel the static
The storm has broken, Heavens open
So electrifying, Oh I'm nearly flying
Lost my heart between the sheets of lightning

I've been singing you this song,
Inside a bubble,
Been Zorbing through the streets of Cowley,
We were always meant to be,
Zorbing together, And I think its high time we started

Lying in your attic
I can feel the static
The storm is breaking, windows shaking
So electrifying, Oh I'm nearly flying
Lost my heart between the sheets of lightning

Lying in your attic
I can feel the static
The storm has broken, Heavens open
So electrifying, Oh I'm nearly flying
Lost my heart between the sheets of lightning

martedì 20 luglio 2010

Distanze. Punto Omega, Don DeLillo



"Era così il deserto, lontano, oltre le città e i paesini sparsi. Lui era lì per mangiare, dormire e sudare, era lì per non fare niente, per stare seduto e pensare. C'era la casa e basta, poi solo distanze, niente scorci panoramici nè vedute a perdita d'occhio, solo distanze".

Punto Omega è un libro che parla di molte cose, questo lo dico subito, in contrapposizione a chi ha detto che non parla di niente.
Parla, in modo non chiassoso, nè invadente.
Parla e riesce - come sempre riesce DeLillo - a condensare concetti di portata enorme in una manciata di righe. La scelta delle parole evoca spunti, direzioni.
Elster e Jimmy, il vecchio e il giovane, prendono entrambi - in modo diverso - le distanze dal mondo, da situazioni che non sentono più appartenere loro.
C'è una sorta di quieto adagiarsi, delle parole, delle esperienze. Non immobilità, ma quiete.
DeLillo riesce a comunicarci il suo disappunto verso la gestione americana del conflitto, riesce a comunicare spaesamento, perdita di identità, volontà di annullamento, il tutto senza alzare la voce, senza mettere in modo cataclismi, tragedie.
Come già aveva dimostrato Durrenmatt in un libro completamente diverso, "La promessa", la quiete può essere - a volte - terrificante. Alienante. Paralizzante. Cose in potenza di succedere. In attesa.
Jimmy come un buco nero.
"Mia moglie una volta mi disse: - Cinema, cinema, cinema. Se fossi ancora un pò più denso saresti un buco nero. Un fenomeno, - disse. - La luce non ha via d'uscita".
Nel prologo Jimmy ed Elster osservano l'installazione "24 hour Psycho", che lo stesso DeLillo ha visitato nel 2006.
Il film dilatato, due fotogrammi al secondo, 24 ore di durata.
Di nuovo, quiete, lentezza.
Tutto appare più chiaro ed al contempo distante, irreale. Un grido dura per un tempo che appare infinito, e diventa così metafora di se stesso, diventa teatrale, al limite dell'assurdo.
E ancora:
"-L'haiku non significa nulla oltre quello che è. Uno stagno d'estate, una foglia d'inverno. E' la coscienza umana calata nella natura. E' la risposta a tutto in un determinato numero di versi, un conto sillabico prestabilito. Io volevo una guerra formato haiku, - disse. - Volevo una guerra in tre versi. Non era questione di livelli di potenza o di logistica. Quello che volevo era una serie di idee legate a cose transitorie. Questa è l'anima dell'haiku. Svelare ogni cosa alla vista. Vedere quello che c'è ed essere pronti a guardarlo scomparire."
Punto Omega è una lettura complessa e semplice allo stesso tempo. Possiamo semplicemente lasciare che immagini e parole si posino lente sulla superficie della nostra mente, o possiamo farle rimbalzare come palline impazzite nel tentativo di trovare loro una collocazione che ci dica: "Ecco, è fatta".
Ma una collocazione non c'è.
Questo è ciò che ho percepito.
Non c'è collocazione, nè conclusione, nè quella sorta di pace che tutti agognamo.
Solo un lento, incessante scorrere.

martedì 13 luglio 2010

Conversation 16

I think the kids are in trouble
I do not know what all the troubles are for
give them ice for their fevers
you're the only thing I ever want anymore
we'll live on coffee and flowers
try not to wonder what the weather will be
I figured out what we're missing
tell you miserable things after you are asleep

now we'll leave the silver city
cause all the silver girls gave us black dreams
leave the silver city
cause all the silver girls
everything means everything

it's a hollywood summer
you never believe the shitty thoughts I think
we had friends out for dinner
when I said what I said I didn't mean anything
we belong in a movie
try to hold it together till our friends are gone
we should swim in a fountain
I do not want to disappoint anyone

now we'll leave the silver city
cause all the silver girls gave us black dreams
leave the silver city
to all the silver girls
everything means everything

I was afraid I'd eat your brains
I was afraid I'd eat your brains

Cause I'm evil
Cause I'm evil

I'm a confident liar
Have my head in the oven so you know where I'll be
I try to be more romantic
I wanna believe in everything you believe
I was less than amazing
I do not know what all the troubles are for
I fall asleep in your branches
you're the only thing I ever want anymore

now we'll leave the silver city
cause all the silver girls gave us black dreams
leave the silver city
to all the silver girls
everything means everything

I was afraid I'd eat your brains
I was afraid I'd eat your brains

Cause I'm evil
Cause I'm evil
Cause I'm evil


Una lunga strada da fare di Peter S. Beagle

Il tempo passa e il resto va

New York San Francisco. Primavera 1963.
Sempre intatti dentro questo libro”.

Phil e Peter partono da New York, attraversando un’America sulla soglia della caduta; nel viaggio si consumerà il rito di passaggio all’età adulta. Il viaggio è oltrepassare alcune soglie, e spesso, troppo tardi, ci si accorge che non si può tornare indietro.
Nell’essenziale e dolorosa postfazione, il racconto di viaggio è messo in prospettiva. Peter S. Beagle perderà il suo amico Phil: per oltre vent’anni non si parleranno. Codardia, impossibilità di scegliere, e in ultimo responsabilità: una nuova vita chiede una dedizione totale, altro che l’eroina di Lou Reed.
Anch’io non parlo con un amico da più di dieci anni. In effetti era parecchio pallido l’ultima volta che lo vidi. L’areazione non è il massimo quando sei su un tavolo di marmo del dipartimento di medicina legale. Probabilmente da allora sono una persona peggiore e migliore allo stesso tempo.
Una grossa fetta di mondo (persone appese a fragili menzogne incluse) non sembra più esistere. Credevamo. Non so bene in cosa, però. Sicuramente era obbligatorio ridere, tentando un tiro da tre punti, sospesi a mezz’aria. E tanti libri seriosi, stupidi, completamente falsi suscitano ora quasi compassione, mentre un tempo sarebbero stati materia di scherno. Era tutto uno scherzo. L’esame di maturità, una passeggiata. La tabella coi risultati veniva appesa, mentre noi eravamo tra Calais e Dover.
Spero che Beagle non si offenda. Anche il suo libro comprende ampie divagazioni. Gli scooter, Jenny e Couchette (ognuno chiama le cose come gli pare), sempre sul punto di rompersi (soprattutto Jenny), sono le macchine del tempo di Peter e Phil. E’ il 1963, passeranno più di quindici anni prima che William Least Heat-Moon scriva il suo capolavoro “Strade blu”, ma soprattutto è primavera, e il novembre di Dallas, della collina del killer, di Kennedy, l’inaugurazione della caduta dell’America sembra distare secoli.
In fondo tutti i libri sull’amicizia (e tralasciamo i versi di Omero) sono sempre qualcosa d’altro. Penso a “Il lungo addio” di Raymond Chandler, ma anche a esempi più recenti, come il rigurgito di Craig Silvey, “Jasper Jones” (tradotto perché in Australia è arrivato in alto nella classifica delle vendite, e allora spero che l’Australia sia invasa dai libri di Gramellini e Geda). Anche Peter vuole raccontare di più. E lo fa.
E’ sempre il giorno dopo domani quello che inseguiamo e di cui abbiamo paura”.
A S. in memoria: alla fine mi sono fermato.

Peter S. Beagle, “Una lunga strada da fare. New York San Francisco. Primavera 1963” (ed. or. 1965), pp. 279, 18 euro, Mattioli 1885, 2010.

martedì 15 giugno 2010

Non conosco il tuo nome di Joshua Ferris

Ci sarebbe da dire che, già dopo due romanzi, Ferris può essere inserito in quella schiera di autori americani che vedono in Richard Powers lo scrittore di punta, fuori dal brusio degli ultimi figli del postmoderno con Roth che, parlando di “fica”, pensa di essere ribelle o nuovo. Ma non lo dirò. Troppa materia e vita e pensiero in quest’opera: una tesi non basterebbe.

Il romanzo di Joshua Ferris contiene pagine straordinarie. Forse lo sono tutte. Tim è un avvocato. Tim soffre di qualcosa, una malattia senza nome. Può camminare per ore, per giorni. Può cadere poi in un sonno pesante e risvegliarsi non si sa dove. Le dita congelate. L’inizio è una scossa. Passando oltre il lettore si avvicina sempre più a Tim. L’autore vuole definire attraverso situazioni familiari oppure surreali, per la presenza della malattia, la vita come non ci è possibile immaginarla: è un quadro insieme astratto e realistico fin nei minimi dettagli. E’ la visione che il lettore non attende, comunicata attraverso un piano narrativo e uno viscerale. Cercare di accettare qualcosa di incomprensibile, una sensazione che è molto più profonda dell’accogliere la fede: le parole di Joshua Ferris in “Non conosco il tuo nome” (“The Unnamed”) hanno questo potere, ci conducono lì, su quel bordo ai limiti della vita e con tutta la forza che rimane in ogni singola cellula riusciamo a guardare oltre. Non è una visione che può lasciare indifferenti.
L’amore per la moglie Jane è un altro nodo fondamentale della trama: “Ciascuno scrutava l’essenziale mistero dell’altro, ma in quei momenti di silenzio si trasmettevano la comprensione di un mistero ancora più impossibile: il loro essere insieme, il riconoscimento reciproco che entrambi avrebbero sopportato le direzioni ribelli che avevano preso e che entrambi, malgrado la loro inviolabile separatezza, sarebbero rimasti”.
Lentamente quello che inizialmente potevamo chiamare, con termini novecenteschi, male di vivere si trasforma in una rivelazione più profonda. Tim combatte contro il suo corpo, contro le marce imposte: “Vai avanti in eterno. La tua singola nota ripetitiva, è pesante”. Il breve lampo che coglie il bambino davanti allo specchio è moltiplicato per mille, per milioni. Questo è “Non conosco il tuo nome”: il corpo, la malattia, la vita, la morte affrontati con un approccio mai visto, sentito, Joshua Ferris è in grado di modulare le parole fino ad arrivare ai quadri finali. Paragrafi che si fanno più brevi. Anche alla fine, nelle ultime pagine, Ferris riesce a rendere tutte le sensazioni di Tim in modo tanto vivido da far sentire lo strisciare di una lacrima o il senso stesso del desiderio. Materia e pensiero. Non ho più posto dove stare, l’eterna condizione di Tim che lo pone in un mondo altro da questo (eppure è qui, questa è la grandezza dell’opera) ci ricorda tutto quello che non dobbiamo dare per scontato. L’amore. La casa. Certo. E neppure un romanzo che è semplicemente un capolavoro.

Joshua Ferris, “Non conosco il tuo nome” (ed. or. 2010), pp. 349, 16,50 euro, Neri Pozza, 2010.

venerdì 28 maggio 2010

L'aiuto di Kathryn Stockett

Anni 60, Mississippi. Questo basterebbe già a intuire la non facile gestione della materia narrativa. Poi si osserva la foto di copertina: è splendida, e cattura in pieno l’essenza del romanzo, nel quale spesso le domestiche si telefonano l’una con l’altra per aggiornarsi sulle novità, sfogarsi, o avvisarsi di un pericolo.
Il romanzo della Stockett colpisce per la sua intensità, ci si sente risucchiati nella calda e appiccicosa atmosfera del sud, e questo forse anche perché l’autrice conosce bene la realtà che ci racconta: è nata in Mississippi e per anni ha avuto una domestica di colore.
In fondo, la storia è di quelle già note: da una parte l’opulenta società dei bianchi, dall’altra la fervente comunità dei neri. Giovani signore ricche che si affannano in feste di beneficenza, domestiche di colore che si affannano dietro ai loro figli e a magioni lussuose.
Sono – in fondo – cose già sentite – ma come sempre, nei buoni libri, a fare la differenza è la scrittura: la Stockett è partecipe, lucida, intensa ed emotiva, senza risultare buonista o accattivante. I suoi personaggi hanno il giusto spessore, si fanno ricordare, si imprimono nella mente con gesti e parole.
C’è la saccente che tratta i domestici di colore come persone infette, la remissiva che fa di tutto per compiacere la saccente e si perde la gioia di crescere i suoi figli, c’è la giovane laureata con tanta voglia di cambiare le cose, c’è la (finta) svampita biondo platino con un grande segreto.
E poi, ci sono loro: le domestiche. Quelle che davvero conoscono il significato della parola “Help”. Aiuto. Di questo si tratta. Delle loro voci raccolte in un libro che (forse) farà la differenza.
I capitoli sono a più voci, di volta in volta volte seguiamo il punto di vista ora di Skeeter, la bruttina, ma sveglia che cercherà di fare la differenza, ora di Aibeleen, domestica che scrive le preghiere su un quaderno perché siano più efficaci, ora di Minny, domestica dalla boccaccia impertinente.
E’ probabile che questo non sia un capolavoro, è probabile che questo libro non cambierà il corso della letteratura.
Quello che è certo è che un libro valido, un libro scritto sapientemente, denso di figure femminili forti o fragili, insopportabili o umane al di là di sé stesse. Quello che realmente ho apprezzato è stato il suo non adagiarsi su facili soluzioni, buonismi da quattro soldi, lieti fini confezionati ad arte.
Kathryn Stockett non dimentica la realtà, pur sapendola addolcire con il calore della speranza.
(Chiara Biondini)

mercoledì 28 aprile 2010

Citazioni

Ho accettato il fatto che ci sarà sempre qualcuno che mi incontra e mi dice apertamente quale essere umano orribile io sia. E non posso farci granché, rispetto a questo.
Todd Solondz, regista, tra i vari film, di "Happiness" e "Life During WarTime-Perdona e dimentica".

mercoledì 21 aprile 2010

Assalto a un tempo devastato e vile. Versione 3.0 di Giuseppe Genna

L’inizio vibratile, che scuote le vele di immagini. Svanisce tutto nella presenza.

Un libro che si autodefinisce come incompiuto. Primo e ultimo. Genna, dopo “Italia De Profundis”, si addentra nella sua opera fondamentale e fondante, per la sua scrittura e per la sua persona. Racconto, memoria, citazione, sbavatura barocca sopra il germe di una filosofia ansiogena (“Viviamo l’Epoca del Trauma”): Assalto è un testo ricco di sfumature, di odori rancidi, di profumi speziati, di sudore e morchia, dissertazione sul lavoro che mi consuma e mi riduce schiavo ogni giorno, ogni ora, legato a una rete che analizza i bisogni. Come disse Baudrillard: “Il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare”.
Genna, dopo dieci anni dalla prima pubblicazione, arricchisce il testo con inserti e citazioni. Foster Wallace: “E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più e che noi dovremo essere i genitori”.
L’era del Trauma è l’epoca delle storie e “le storie sono vuote”. Rimandando a Burroughs, Genna afferma che la fantascienza sarà la sua ultima allusione.
Un capitolo analizza il ’68. Smonta il movimento usando György Lukács che “riassume l’atteggiamento di questa élite, illegittimamente uscita dal ’68 e attualmente irradiante disvalori dalle plance tecnocratiche che si contenta di gremire”. E ricordo A. S. e sua moglie e i loro amici (tecnocrati d’alto rango del CNR o di istituti pubblici o privati) lettori di Mao: le peggiori persone mai incontrate nella mia vita, ora lo comprendo. Genna inserisce poche righe di speranza: l’esplosione sempre possibile.
E dopo i falsi padri, il lettore può trovare la morte, narrata già in “Italia De Profundis”, del padre vero. Un suo quaderno. Le sue poche parole. Un amore che l’autore non può comprendere.
Noi abbiamo questo libro: racconti, ricordi, descrizioni, visioni, allucinazioni, poesia, prosa e abbaglianti filamenti di presente scritti molti anni fa, con più precisione di quanta se ne potesse desiderare. “L’inizio mi accompagna e cresce e diventa fine, una dorsale che sviluppa la cartilagine del disagio e dell’inoltramento”.
E’ la città strinata di nebbia e zolfo, periferia culla dell’esplosione, che Genna indaga. A volte sono solo miccette da niente. “Una volta mi vidi a specchio in una vetrina e inorridii, poi vidi il vetro”.
End Zone” di Don DeLillo è ampiamente citato, prelude al finale del libro stesso, che però si è detto, non finisce. “I Nomi”, “Il Cratilo”, “Vineland”: DeLillo, ancora, Platone, Pynchon. “Non esiste terapia all’umano o per l’umano, se non la sua estinzione” e subito aggiunge: “Questo sogno è terapeutico”.
Ogni genere (letterario, psichico, morale, fisico) è stato stuprato, affinché si aprisse lo spazio senza genere: uno spazio generico, una End Zone. E’ tale il luogo in cui il desiderio, finalmente realizzato, o l’esperienza finalmente compiuta, vengono trascesi, in modo da essere visti quali sono: desiderio ed esperienza”.
Arretro di fronte a questo groviglio di parole colmo di esche, inneschi e fughe.

Aprile del 2010 / ascoltando Four Tet, There Is Love In You.

Giuseppe Genna, “Assalto a un tempo devastato e vile. Versione 3.0”. pp. 325, 15 euro, Minimum Fax, 2010.

domenica 18 aprile 2010

Electrelane

Guardavo un film, e poi mi sono detto, questa canzone, questa canzone la conosco...
L'album è uscito alcuni anni fa, No Shouts No Calls. Non ho mai trovato grandi risposte alla mia passione per questo gruppo che seguo da quando pubblicarono The Power Out.
Allora faccio spazio togliendo gli album Four Tet, There Is Love In You e Bitte Orca dei Dirty Projectors, di cui forse sarebbe giusto parlare a parte.
Ecco qua, nel leaflet del CD ci sono i testi, tutti scritti da Verity Susman (molti brani sono strumentali):



You didn't know where to go
Walking around in this flag-waving town
I saw you waiting for a train
And you disappeared
Your face pressed up to the window
You went so far away
And I want to come there too
I want to be with you
I'm just waiting until you say these words :
"Come back, come back, come back, oh, to me...
I'm living near Gdánsk, there's a train, you'd be here soon
There's a life for me and you
The East means so many things
But it could be home, it could be home, it could be home, it could be home
For you and me
It could be home, it could be home, it could be home, it could be home
Come back, come back, come back, oh, to me..."
And if you'd ever say these words
I'd come to you, where you are
It's too hard to be apart
The East's not so far away
And it could be home, it could be home, it could be home, it could be home
For you and me
It could be home, it could be home, it could be home, it could be home
Come back, come back, come back
Oh, to me...

lunedì 29 marzo 2010

La cattiva strada di James Crumley

Quando James Crumley scrive questo romanzo è il 1983 (circa), sono passati vari anni da “Il caso sbagliato”, l’altro noir che vede Milo Milodragovitch protagonista. Crumley ha sempre scritto poco. La sua prima opera, “Uno per battere il passo”, è stata tradotta da una piccola casa editrice e narra della sua esperienza nell’esercito.
Scrittore avvolto da un’aura leggendaria, oltre che dalle esalazioni dell’alcol, Crumley è il personaggio a cui è dedicato un intero romanzo di Patrick Raynal, direttore all’epoca della Série Noir per Gallimard “Cercando Sam” che contiene, come un inserto, la citazione del Dead Perfect Solid Martini. Era il 1998, i noir Einaudi avevano un’impronta nera sulla costola, conoscevo Raynal per fama e Crumley perché Luca Conti, che avrebbe poi ritradotto le sue opere (non ha ancora finito se si vuole essere precisi), ne parlava come di un mito vivente. Il suo ricordo per la morte di Crumley è un distillato di malinconia ed epica grandezza. Che poi, Conti lo sa bene, Crumley avrebbe preferito un altro martini a tutta l’epica e la grandezza, o almeno è quello che avrebbe risposto se interrogato in materia.
La cattiva strada” fa risplendere un’opera già apparsa nei Gialli Mondadori (“Dalla parte sbagliata”: comunque il titolo originale è “Dancing Bear” e il lettore è bene che lo sappia visto che l’orso, danzante o stecchito, è un elemento della trama). Milo si trova invischiato in una storia di cui non si riesce a trovare il senso. Pedinamenti, fughe, esplosioni. A un certo punto il protagonista è stremato (nel romanzo ha quarantasette anni): “Ma che cazzo pensai. Se quei pezzi di merda mi stanno alle calcagna, se vogliono fare secco un vecchio scorreggione come me, già mezzo morto di paura, adesso sono cazzi loro. Mi trovano proprio caldo, schizzato a questo modo. Soprattutto perché, a parte la coca, mi ero sistemato alla grande: mezza dozzina di bombe a mano , un’arma automatica [un Ingram M-11 - n.d.r] e nove caricatori pieni”.
Nei libri di Crumley il western è mescolato al noir, solo che l’eroe non è mai senza macchia; a parte l’alito che sa di Schnapps, le pupille tradiscono un uso continuo di cocaina. Questo l’autore lo sa benissimo e anche Milo: “Ero tornato a lavoro da sole ventiquattro ore e già facevo schifo al cazzo. Sembravo un cadavere ambulante di serie B, un uomo in fuga da se stesso”.
E’ la vita che siamo sempre costretti a trascinarci con noi, che ci definisce e, a volte, ci condanna. I noir di Crumley non sono un elogio alla sregolatezza: la paura e il desiderio sono i sentimenti più forti, e dominano le vite di molti suoi personaggi in un modo che non spereremo mai di incontrare.

James Crumley “La cattiva strada”, (ed. or. 1983), pp. 292, 18 euro, Einaudi, 2010.

martedì 9 marzo 2010

Citazioni

E' più criminale fondare una banca che rapinarla.
Bertold Brecht

Su Intesa San Paolo e la sua nuova pubblicità regresso:
Strategie evolutive

martedì 2 marzo 2010

Il sangue è randagio di James Ellroy. Dov’è quel piccolo clic che collega tutto.


Un solo nome: Klein. Un solo collegamento: Dave Klein. Un omaggio. Una sola conclusione con i fili ancora appesi, pronti al corto circuito, aperti. Scintille sul finale della tetralogia di Los Angeles. “White Jazz”. Ora questo. L’ultimo volume di “Underworld America”.
JFK. Morto. MLK. Morto. RFK. Morto. “Tricky” Dick in corsa contro Hubert H. Humphrey per la Casa Bianca. Gli uomini dietro le quinte. Dwight Holly. Wayne Tedrow Junior. Infiltrazione. Riciclo di denaro. Disinformazione. “Il sangue è randagio” si apre con una rapina: denaro e smeraldi. Un filo che legherà insieme troppe vicende. “Dimmi qualcosa. Dimmi tutto”: come sempre Ellroy non si risparmia. Alterna anfetamine e barbiturici. Impenna la storia, la incrocia con la Storia, le vicende si contorcono, rituali voodoo, erbe haitiane, la visione si sfalda. Leggo. Alcune pagine diventano sfuocate. Qui qualcosa non torna: bisogna leggere ancora. Non si può smettere. Impilo i romanzi come fascicoli. Donald Crutchfield con strane assonanze con Ellroy da giovane. Furti nelle case. Dexedrina. Ossessioni. Donne. Fotografie. Biancheria intima. “I miei luoghi oscuri” infiltrato nella trilogia. Trilogia di fascicoli. Di Romanzi. R. Erre maiuscola. Tutto finto. f. Effe minuscola. Nessuna regola. Le regole sono note. I problemi non esistono, se non esiste una soluzione. Sudore sui fogli. Fuoco nelle strade. 1968: le micce sono accese. Tutte. Il romanzo corre. Vite che s’intrecciano troppo tra di loro. La storia di James Ellroy o la si vive (in parte) oppure è inutile accostarsi a questo autore. Riprendo il precedente fascicolo: Sei pezzi da mille/marzo 2001/L.39.000 – 20,14 euro. Sulla prima pagina una “J” strascicata. Un piccolo marchio.
La mazza da golf sul cranio di W. T.: un finale ondeggiante. “Sei pezzi da mille”: pagati. “Il sangue è randagio” riparte da lì. Da quel finale. Non è che un ultimo enorme tassello nella storia/Storia di Ellroy. “Underworld America”, ispirata a “Libra”, a “Underworld”; libri che avrei letto. Dopo.

Donald Lindscott Crutchfield. La tappezzeria che si anima. Collegamenti che diventano chiari. Clic. La rapina. Clic. L’assassinio brutale. Ossessioni continue. “-Perché fai queste pazzie?-. -Perché voglio piacere alle donne-”. E le donne, scomparendo, rimangono. Vive.
Come sempre in Ellroy un personaggio può morire in poche righe. E accade. J. Edgar Hoover è l’ultima morte “storica”, ma un attacco di cuore, può avere molte spiegazioni. Provate questa.

Il Watergate resta fuori, sospeso, una presenza che rimane indelebile, non serve la scrittura. E la scrittura di James Ellroy non è epica, perché mito essa stessa: la trilogia usa “la verosimiglianza senza scrupoli”, trascina il lettore per oltre ottocento pagine, devia, assolve senza redimere, crolla. Tutto è iniziato con “American Tabloid”. Il primo colpo. Dalla collina: Dallas 22 Novembre 1963. In memoria di quello che eravamo.
Dimmi qualcosa?
NIE sucks.

James Ellroy, “Il sangue è randagio” (ed. or. 2009), pp. 859, 24 euro, Mondadori, 2010.

martedì 9 febbraio 2010

Parte della soluzione di Ulrich Peltzer

L’anatomia di un cadavere rispecchia, l’anatomia umana, o almeno è così che sembrano le cose dai bordi di una sala settoria. L’anatomia di un testo narrativo può essere il risultato di una decostruzione e ricostruzione, del lampo di un momento di creatività. Bene. “Parte della soluzione” è un’improbabile ricucitura di pezzi narrativi, l’unico lampo è quello del sudore del lettore che arranca attraverso pagine asettiche, svuotate di vita e poi spalmate sulla carta. E’ tutto estremamente ricercato, dalla pluralità di voci, che invece di amplificare, soffocano la storia, alla scelta del linguaggio sempre algido, nei discorsi, nelle descrizioni, anche la passione appare vissuta per procura. Ulrich Peltzer si dimostra incapace di raccontare. Può accumulare particolari, può riuscire per tre pagine a tenere in piedi un incontro. Non di più. Tutto si disfa. Neppure putrefatto, la cosa presupporrebbe una vita, ma semplicemente polverizzato in una materia amorfa. “Parte della soluzione” è il romanzo che attraverso il racconto di una possibile cellula eversiva, e dei personaggi che vi ruotano intorno come a un buco nero, attratti oltre il bordo della discontinuità, vorrebbe esprimere il disagio e la potenziale instabilità di un intero sistema. La confezione è estremamente attraente, ma sotto le premesse rimbalza solo una trottola narrativa che gira fino a smorzare anche il più debole movimento. Il sistema può dormire tranquillo, e anche i lettori: credo che poche pagine equivalgano a un etto di valeriana.

martedì 26 gennaio 2010

I raccoglitori di fragole di Dorothy Hewett

Dorothy Hewett, scrittrice australiana, offre in questa raccolta di racconti una splendida prova di scrittura. E' il lavoro di una vita. I racconti coprono un arco temporale di quarant'anni e si muovono tra stili e registri molto differenti tra loro.
Di volta in volta, scopriamo personaggi in apparenza diversi e distanti: un bambino che cerca di dipanare la matassa ingarbugliata degli eventi che sconvolgono la sua piccola vita, un raccoglitore di fragole che cerca lavoro con la sua giovane moglie aborigena, una donna di mezza età che vaga tra stanze e ricordi, una coppia in luna di miele, due sorelle misteriose, e ancora molti altri.
Quello che li accomuna - al di là della loro età e del luogo in cui si trovano - , è la forte empatia che riescono a trasmettere, e - soprattutto - l'enorme fusione con l'ambiente che li circonda.
Nelle parole della Hewett, le persone si fondono col paesaggio, creando immagini memorabili. I corpi ricordano le forme della terra, i movimenti umani ricalcano quelli animali, le forme degli alberi si sovrappongono a quelle di gambe, braccia, movimenti fluidi che paiono generarsi dal terreno per fissarsi sulle persone.
"Poi li vidi, i figli dei manovali con Irene McKenna in testa, correre a piedi nudi sull'erba verso la boscaglia, saltare tra gli alberelli di eucalipto, scuri e lucidi come lei".
Australia, in tutte le sue mille sfumature, è una presenza viva, qui, un elemento preponderante.
"Socchiusi gli occhi per via della luce accecante e gli sembrò che in quel momento il ragazzino fosse lì, con un piede nudo sulla roccia piatta e le briglie a penzoloni, lo sguardo perso oltre i pascoli dove la foresta azzurra segnava i confini, il bestiame che si muoveva e si agitava sotto gli eucalipti, sua madre in piedi nel cortile con i bidoni della panna, che si riparava gli occhi e gridava il suo richiamo dalla piana".
Lo stile poi denota un'intelligenza acuta, capace di destreggiarsi senza difficoltà tra i vari generi. Si passa da un registro semplice, immediato, denso dell'emozione istintiva che può contraddistinguire un bambino di tre anni, ad uno stile che mescola biografia, articoli di giornale, frammenti di poesia, estratti di diari.
C'è spazio per la riflessione politica (la Hewett ha fatto parte a lungo del Partito Comunista australiano), attraverso le accorate parole di giovani pieni di speranze, così come per l'emozione di un incontro.
Il mio racconto preferito rimane senz'altro "Le barriere di Jarrabin", un piccolo grande gioiello che in poche pagine riesce a raccontarci la magia e la crudeltà dell'infanzia, la difficile vita degli aborigeni, le scelte degli adulti vissute come imposizioni, cambi di rotta ai quali mestamente ci si rassegna.
"A volte, quando una delle donne ci rivolgeva la parola, correvamo via verso il buio e lì restavamo, prima su un piede e poi sull'altro, come timidi animali selvatici, mentre i nostri vestiti chiari brillavano nella penombra"

In generale, questa raccolta di racconti è ricca di emozioni, immagini che restano impresse a lungo e offrono un ampio panorama sull'essere australiani.
Al termine del libro, un'interessante postfazione della Hewett ci offre squarci di luce sull'origine dei testi; la scrittrice ricorda cosa li ha evocati, il perchè di una particolare scelta, la motivazione nello scrivere racconti, che spesso si rivela più arduo che scrivere un romanzo. Il finale perfetto, ça va sans dire. (Chiara Biondini).

sabato 16 gennaio 2010

Come mi batte forte il tuo cuore di Benedetta Tobagi

Benedetta aveva 3 anni quando uccisero suo padre Walter. Lui, di anni, ne aveva 33. Dalla sua morte, il 28 marzo 1980, sono passati quasi 30 anni.
Walter Tobagi era un giornalista, uno scrittore, era anche Presidente dell’Associazione Giornalisti della Lombardia; scriveva per il “Corriere della Sera”, si occupava di politica, di sindacati, di terrorismo. Era un appassionato storico, gli interessava soprattutto la storia dei sindacati, la loro nascita, la loro evoluzione.
Lo uccise un commando della “Brigata XXVIII Marzo”, costola semi-sconosciuta delle ben più famose BR.
Raccontare la sua storia significa raccontare quegli anni che tutti conosciamo sotto la definizione “anni di piombo”. Anni in cui giovani sotto i 30 anni si sono sentiti in diritto di mettere a ferro e fuoco un paese che non rispondeva ai loro ideali.
Benedetta sente forte la mancanza di un padre, ancora di più di un padre come il suo, che a 33 anni ha già una brillante carriera, conosce personaggi in vista (da Moro a Craxi, che benedetta ricorda come un omone spaventoso, tanto che lo osservava di nascosto), è apprezzato ed amato nell’ambiente giornalistico, come in quello politico.
Alle medie scoprii che nelle cellule vegetali ci sono organuli simili a bolle d’aria, i vacuoli, attorno ai quali si organizza il resto della struttura. Mentre ricopiavo diligentemente il disegno dal libro di scienze sul mio quadernone pensavo, desolata: sono io. Abbarbicata attorno a dei vuoti in cui cerco disperatamente di non cadere”.
L’assenza, il più delle volte, è ossessiva, pesante, come un mantello che condiziona passi, scelte. Ci si chiede sempre: e se? E se fosse vissuto? E se mi avesse vista crescere? E altre domande ancora. La risposta di Benedetta è cercare. Ripercorrere la storia di un padre attraverso le sue carte, i suoi articoli, i suoi ricordi, le sue registrazioni, gli atti del processo.
Un sentiero fatto di carta che condurrà – forse – ad una serenità nuova.
I ricordi intimi, le figure dei nonni, l’infanzia e l’adolescenza di Walter si mescolano alla ricerca storica, al lavoro certosino in archivi impolverati, in redazioni deserte.
I colloqui con gli amici giornalisti, le lettere giovanili, i diari: esperienza, memoria, lavoro, ricordo e inchiesta si mescolano e si inseguono tra i capitoli.
Perché Benedetta, per capire e conoscere suo padre, deve poterne cogliere tutti gli aspetti.
Il libro corre veloce, senza piagnistei o pedanteria.
I libri di memorie non sono tra i miei favoriti; purtroppo si rischia di cadere nella pantomima del martirio, nel circo dell’eroe caduto. Non vuole essere mancanza di rispetto, la mia, ma semplice constatazione: spesso queste morti vengono strumentalizzate per un cordoglio che di autentico ha poco, si smarriscono dentro facili vittimismi.
Questo libro è invece ben scritto. E’ Benedetta stessa a precisare:
Sono allergica alla retorica vuota del martire e dell'eroe, che troppo spesso si applica alle vittime del terrorismo. Papà ha avuto paura, ha faticato, ha assunto posizioni impopolari e molto discusse, ha continuato a scrivere le cose che gli sembravano giuste, ha cercato di riempire ogni giorno di senso il suo ideale di democrazia: questo, non il "martirio", fa di lui un punto di riferimento”.
Questa sua consapevolezza si evince chiaramente dal suo lucido modo di scrivere, di raccontare, di analizzare.
La morte di Walter Tobagi scosse molte coscienze, e ha ancora molti punti oscuri. Il processo ha condannato gli assassini, fra tutti il reo confesso Marco Barbone, ma non ha in realtà chiarito chi fossero i mandanti.
Ulderico, il sanguigno padre di Walter, avvisò Benedetta, le disse: “Attenta a non farti male”. E che cos’è che può fare più male della morte di un genitore? Forse, scoprire che giustizia non è stata fatta. Che – forse – qualcuno sapeva e non ha detto, “avrebbe potuto” ma si è voltato dall’altra parte. Benedetta non accusa, semplicemente riporta i fatti così come le si sono parati davanti agli occhi, con semplicità e grande obiettività.
Crescere, diventare sé stessi nell’ombra e nella scia di un evento drammatico come questo non è semplice, e la Tobagi crea, con questo libro, un universo nel quale muoversi, un punto di partenza e una destinazione, un micro-cosmo nel quale far gravitare storia, cronaca, ricordo, amore. (Chiara Biondini).

sabato 9 gennaio 2010

“Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi)” di Nicola Lagioia.

Portami il girasole impazzito di luce. E un caffè macchiato, grazie.

E’ un libro da consultazione. Certo prima bisogna leggerlo almeno una volta. Però poi sta bene lì sul comodino, vicino a “Orientarsi con le stelle” di Carver. Ehi, l’editore è lo stesso. Strano? Non tanto.
E’ un livre de chevet, certo, che si può comodamente tenere vicino alla scatoletta con due tipi diversi di benzodiazepine e una imidazopiridina, niente di illegale, magari anche del salbutamolo per riempirsi i polmoni di aria grigia. Questo romanzo - o non romanzo - libro - oggetto, mettiamoci pure a cavillare, a volte (anzi spesso), si apre in vortici di luce:
“[…] diventa chiaro che per sfuggire a ricadute disastrose è necessaria una partenza. Tra Lazio e Umbria le stagioni, si soffermano su una muta, radiosa declinazione di morte. Si aprono alla vista campi di girasole di una bellezza devastante. Enormi distese di oro e di verde salgono al vertice della propria intensità al solo scopo di crollare tanto più rovinosamente nel cuore piatto dell’inverno. Partii che potevano essere le cinque del mattino. Ci fu quest’alba in autostrada. Questa luce su cose morenti. Queste ali spiegate di corvi che annunciano il giorno”.

In fondo il libro di Nicola Lagioia, che si legge comodamente in novanta minuti, senza supplementari e saltando l’intervallo (a meno che non siate incontinenti), il libro è una serie di finte partenze per afferrare quella giusta. Una serie di scatti brucianti da centometrista. Ancora e ancora. E non ne avrete mai abbastanza.
Mescolare ricordi, citazioni, storie immaginarie, i cliché, la vita, la dama cinese, la cucina, che nei romanzi è quasi sempre luogo di accumulo di piatti sporchi, la letteratura (ovvio c’è "Guerra e pace"), la filosofia, Love & Death, ma senza nominarlo, e ancora la droga, laccio emostatico compreso (ora costa un euro), il nembutal, che, invece, praticamente non si vende più, e spararsi tutta questa tirata di parole, rimangiando ogni cosa di sé stessi, ogni sbaglio, sconfitta o vittoria, tutto, come in una partita di dama cinese, appunto: questo è il romanzo, in parte. Perché è la danza di sottrazioni che affascina Lagioia e il lettore (o alcuni lettori); questa gara ad eliminazione, anno dopo anno, in corsa verso il nulla e in mezzo… In mezzo quello che vi pare.
Mi avete realmente creduto?”.
Più o meno è così che vedo questo romanzo. Disclaimer: ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti (anche a Lagioia ecc.) è puramente casuale. La lunghezza della recensione è proporzionale a quella del libro e al fatto che voglio prendere il tè guardando una puntata de “I pinguini di Madagascar”.