giovedì 26 novembre 2009

Suttree di Cormac McCarthy


Per Knoxville l’autore transitò durante la sua vita, nato a Providence nel ‘33, a quattro anni era già nel Tennessee. Ed è in questa città, nel 1951, che fa iniziare il suo capolavoro, pubblicato, dopo anni di riscritture, nel 1979; l’incipit sul fiume può vagamente ricordare l’attacco dickensiano de “Il nostro comune amico” (anche qui compare un cadavere). Suttree è un protagonista che si presenta in maniera oscura, brevi lampi illuminano il suo animo, ma più spesso è avvolto dall’atmosfera cupa del paesaggio. Se “La Strada” appariva apocalittico e doloroso, probabilmente era perché il lettore non aveva ancora letto “Suttree”, un romanzo di perdizione e salvezza, dove si alternano dialoghi secchi e descrizioni barocche.
In alto, sopra il territorio più a valle, il fulmine vibrò senza un suono e si estinse. Il contorno illuminato di nuvole lontane. Una luce sulfurea. Ci sono draghi tra le quinte del mondo? La pioggia adesso cadeva più fitta. Una forte pioggia obliqua nella luce del lampione, che tagliava in due il quadrante dell’orologio. Tempaccio, dice il vecchio. E così sia. Che gli elementi della terra mi avvolgano, sarò sempre più granitico. La mia faccia dirotterà la pioggia come le pietre”.
Con il proseguire le immagini si fanno spesso ancora più cupe, svuotate di speranza come nella descrizione del mercato coperto che trovate a pagina 78, troppo lunga per poterla citare.
Suttree vive sul fiume e del fiume vive, pescatore con un tipo di barca detta “schifo”. Il Tennesse River è una sorta di Stige, “il fiume come un trematode gigante che si srotolava denso e infetto oltre le eleganti dimore della sponda settentrionale”. Suttree è uscito da una casa di correzione, ha un manipolo di amici, a cui sono dedicate molte pagine, ma la prima vera svolta è, nel romanzo, imposta da quell’inverno col termometro che scende vicino ai meno venti. Nella città congelata, Suttree prende al volo un tram, che però lo lascia al capolinea, dovrà tornare a piedi. Nel gelo più freddo della notte, Knoxville regredisce ad antico bastione di luci e ombre: “A ovest le luci di Knoxville tremolavano in una leggera penombra, come certamente le rovine di molte città antiche viste dai pastori sui colli, dai membri di qualche tribù barbara arrancanti lungo i sentieri”.
Nei racconti degli amici ritroviamo lo stesso malinconico attaccamento alla vita di Suttree e le stesse immagini che sconfinano nella poesia. Come in Gene Harrogate, il topo di città, l’ideatore di piani folli, accampato sotto un ponte: l’umanità profonda di Suttree si manifesta nei suoi rapporti con gli altri. Indiani esperti, neri in punto di morte o il miserabile Gene perso tra le grotte, sotto la città, alla ricerca della ricchezza: “Lo stoppino vacillò e si afflosciò con un sibilo esile e il buio si richiuse su di lui assoluto al punto che Harrogate smarrì i propri confini, grande come l’intero universo e piccolo come la più piccola cosa”. Gli attori di questa storia sono uomini che McCarthy riesce ad avvicinare al lettore come persone, più che come personaggi.
Nella vastità del romanzo compare anche un ritiro sulle montagne, una sorta di disintossicazione, popolata da allucinazioni e immersa nel paesaggio tra Knoxville, Cherokee e Bryson, North Carolina.

Poi si ritorna in città alle risse, alle sbronze, sfuggendo un arresto, ma non abbandonando mai gli amici: “Suttree alzò lo sguardo su di lui. Certo tu trascineresti a fondo anche il papa, disse.
Probabilmente lui nemmeno beve
”.

In McCarthy le descrizioni si aprono ampie nel respiro precise e ricche di particolari. E’ una lingua magmatica, potente. La scrittura non è mai in affanno. Riuscire a sostenere l’enorme materia di “Suttree” è un gesto eroico e da vero maestro. E’ uno scrittore che può ridisegnare lo spazio-tempo secondo una sua logica, inclinando il piano verso quelle “coniugazioni di spazio e materia verso quel centro immobile dove i vivi e i morti sono una cosa sola”.

giovedì 12 novembre 2009

Citazioni


A chiunque si sia perso negli infiniti modelli di realtà del mondo moderno, noi diciamo: Philip K. Dick era lì prima di voi”.
Terry Gilliam

lunedì 9 novembre 2009

Little Moon di Grant-Lee Phillips

Torna Grant-Lee Phillips, lo avevo lasciato al buon disco “Strangelet”, ma qui con “Little Moon” riprende sonorità vicine al capolavoro dei Grant Lee Buffalo “Mighty Joe Moon” (1994). Anche questo è uno di quegli album che si possono ascoltare e riascoltare dall’inizio alla fine senza saltare un verso, e poi continuare a riprendere in mano per anni. E sempre ad aspettarti trovi la stessa emozione. Qui si comincia con l’allegria di “Good Morning Happiness”, una nota strana, all’apparenza, per il cantautore dall’aria triste, ma che ricorda l’apertura dello splendido “Fuzzy” (sempre dei Grant Lee Buffalo, 1993) con “The Shining Hour”. Musica a volte sommessa, ma di grande impatto. Nel libretto troverete tutti i testi. Con Amazon.com è un disco che costa, comprese le spese di spedizione (con un trasporto medio ovvero 10 giorni), 15 euro. Ma si dovrebbe trovare anche nella grande distribuzione (non al supermercato, ovvio). La title track è un esempio perfetto dell’atmosfera intima e dolce che Phillips riesce a creare. Anche in “Blind Tom” il pianoforte accompagna un testo ipnotico, “here’s a little song/I learnt it from the wind”, che rimane a lungo nella mente dell’ascoltatore.
Bellissima la canzone seguente “One morning” con il suo refrain: “one mornin’ fore the sun rise/ one mornin’ fore the light/ one mornin’ fore the man old rooster has cried/ one mornin’ fore the trucks roll, blowin’ their horn/ we gonna take the whole world/ on by a storm”. In un'alternanza tra la melodia più sussurrata e l’esplosione di altre canzoni, “Little Moon” è un album completo, struggente e insieme ottimista, richiede all’ascoltatore solo quel minimo di partecipazione per trovare i tesori sepolti, neanche troppo in profondità, e farli brillare (la parola “shine” è un leitmotiv della produzione del cantautore americano): “under the moon one night/ carved in alabaster/ I want to see your treasure shine”.
Album stupendo, riascoltato già decine e decine di volte.


lunedì 2 novembre 2009

Via della Trincea di Kari Hotakainen

Hotakainen parte da una separazione, quella tra Matti e sua moglie e sua figlia, Helena e Sini, per affrontare il dilemma del trovare casa. In realtà Matti e Helena hanno già una casa, ma è un bilocale, lontano dal sogno di Helena di una villetta indipendente.
L’autore alterna vari punti di vista, così l’io narrante può essere Matti, che illustra il suo progetto e la sua situazione, oppure Helena, o i vicini di casa, o la polizia, o un agente immobiliare. In questa narrazione divertente e malinconica, con un grande ritmo, Kari Hotakainen non nasconde una critica molto dura al sistema di vita Finlandese.
Nella preparazione da stratega bellico, Matti si appresta a raggiungere il suo obiettivo e in questo percorso apprendiamo molto. La “villetta” ha il suo clan di sostenitori e anche il suo organo di stampa, “Casa Giardino”: in un articolo uno psicologo spiega i vantaggi del vivere in una villetta unifamiliare, la bellezza e la tranquillità del giardino fiorito. Altro elemento cruciale è l’essere un reduce, condizione che Matti stesso illustra: i reduci della Guerra avevano avuto diritto a un lotto di terra su cui far edificare una casa, Matti è invece un reduce del Fronte Domestico. Abilissimo nel cucinare, pulire, lasciare del tempo libero alla sua compagna e moglie è un soldato di quella guerra di liberazione dei confini o meglio dei compiti che definivano uomo e donna e che con il progresso e soprattutto nell’avanguardista Finlandia sono storia vecchia. Proprio il suo essere un reduce non riconosciuto alimenta la sua rabbia. La villetta, il suo acquisto, coincide per Matti con la riconquista della sua famiglia.
Tra vicini del condominio che sfiorano la paranoia, agenti immobiliari sull’orlo di una crisi di nervi, abitanti di villette disposti a tutto, Matti muove i suoi passi verso il sogno. Diventato anche un film, “Via della Trincea” è un romanzo di esilarante bellezza.
Alla fine quello che non ho capito è perché una persona dovrebbe volere una villetta a Helsinki: “D’inverno, poi, qui di cielo non ce n’è neanche un po’, l’alone delle luci nasconde le stelle e le gomme chiodate raschiano l’asfalto”. E sì, Helsinki non è Villasimius.