lunedì 24 novembre 2008

“Balkan Bang!” di Alberto Custerlina. Cevapi, cipolle e armi. Tante armi.

Criminali, poliziotti, killer psicopatici e Sarajevo in fase di ricostruzione: i fori negli edifici come tanti occhi da chiudere con cemento e stucco.
Balkan Bang!” di Alberto Custerlina è una prova, se ancora ce ne fosse bisogno, che la narrativa italiana può seguire strade nuove, rielaborare generi e riuscire a trascinare il lettore in un racconto adrenalinico e affascinante. Un noir mescolato al thriller dove i dialoghi sono al centro dell’azione con una lingua familiare e convincente che nasce da Elmore Leonard e dal cinema americano e italiano. Quando Cedomir deve raccontare la storia del Mancino inizia dal porto di Dubrovnik, dove ci sono lui, il Mancino, che all’epoca la mano destra l’aveva ancora, e Stojan Due Dita, ma poi inizia a spiegare anche che fine hanno fatto le altre otto dita di Stojan. Ecco: Custerlina riesce a maneggiare, nei dialoghi, storie e riflessioni sulla morale, e racconti dentro altre storie. Un’impresa non facile. Nella scrittura dialoghi e narrazione orale trasposta in parole diventano uno dei motivi ricorrenti del romanzo: un modo affascinante di percorrere la storia.
Alberto Custerlina non risparmia energie ed insegue con ottimi risultati una trama contorta come la vita dei suoi personaggi. A volte sopra le righe, a volte sotto, e a volte non si sa dove. E’ una letteratura di genere che i cliché li usa solo per costruire un canovaccio: la narrazione poi procede a ruota libera. Una lettura liberatoria. Fuori dai soliti schemi. Impregnata dall’odore dei cevapi e dal gusto acre della polvere da sparo.

Alberto Custerlina, “Balkan Bang!”, pp. 218, 16 €, Perdisa Editore, 2008.

domenica 23 novembre 2008

Atterraggio perfetto. La vita facile di Richard Price.

“…preferiva che i crimini avvenissero alle ore piccole, quando la pace soprannaturale della città consentiva un dialogo più profondo con la scena”.
Per la visione ricca di dettagli, di eventi marginali, ma di grande potenza narrativa, Richard Price ricorda, in versione aggiornata e meno epica, Charles Dickens.
La vita facile” usa un omicidio come pretesto per raccontare New York divisa tra vecchi palazzi, negozi arabi, bar, mini-market, muri ingrigiti e appartamenti con vista sul parco. Ci sono Eric (anche il cognome è dickensiano: Cash), artista come tanti, arenato in un bar, Matty e Yolanda, due investigatori, Ike Marcus, Billy e molti altri ancora.
Opera non facile, ma di facile lettura, “Lush Life” è il gioco perfetto del narratore onnisciente. Il romanzo al suo meglio. Il lettore vede ciò che accade. Sente gli odori. I suoni.
Parlavo di eventi marginali e della potenza narrativa: è il discorso di Nabokov nella sua lezione su “Casa Desolata”, l’anonimo che attraverso una descrizione, un gesto diventa immagine letteraria, e per Dickens, o Price, icona di uno stile. In un ascensore affollato, foderato di fogli di alluminio “due cinesi si stringono al loro carrello come pellicola sigillante”: non sono niente per la storia, comparse senza peso, ma, attraverso le descrizioni, Richard Price rende tutto unico. E’ una scrittura preziosa di questi tempi. L’autore non è certo alla sua prima esperienza, oggi ha quasi sessanta anni, il suo primo romanzo è uscito quando ne aveva ventiquattro, nel frattempo ha scritto “Freedomland”, “Clockers”, e anche alcuni episodi della serie poliziesca “The Wire”.
La vita facile” è costruito per frammenti. Personaggi e inquadrature. Price non perde mai di vista il racconto: è solo grazie alla sua straordinaria abilità, se il romanzo non naufraga, se i frammenti s’incastrano alla perfezione. Non troppi personaggi, non troppe visioni e versioni, ma molti personaggi, molte anime che muovono i fili della storia. “La vita facile” è New York. E’ un omicidio, vendetta, riscatto, amarezza, speranza. E’ un salto con il paracadute, e insieme l’incertezza che la vela si apra.

lunedì 17 novembre 2008

Il tempo infranto di Patrick Fogli: demolizione controllata

E’ una lettura interessante, suo malgrado, “Il tempo infranto” di Patrick Fogli.

Compaiono numerosi personaggi attraverso i quali si sarebbe potuto scrivere un romanzo. Fogli, purtroppo, non usa la gabbia dei riferimenti storici alla maniera di Ellroy. Fogli vuole tutto. E subito. E accosta nomi inventati, nomi veri (pochi). Inventati per evitare querele, forse, ma il risultato è torbido. La narrazione è affannosa. Se non puoi dire, meglio tacere. Avesse adottato un profilo diverso, una visione particolare, avesse approfondito una tessera, invece di lanciarsi nella costruzione abborracciata di un puzzle intero, Fogli avrebbe potuto scrivere un romanzo almeno decente.
Ci sono molti spunti. Anche negativi: si veda il “tenero” amore tra Chicco e Giada, che sa molto di reality show. Chissà, forse a Fogli lo ha rovinato la TV. O la musica.
Tutti stanno cercando qualcosa canta Annie Lennox e Giada si ferma in mezzo alla corsia dei surgelati” (sic).
Il risultato è viziato, come detto, dalla spropositata ambizione dell’autore. E’ come guardare un affresco (di qualità artigianale) in cui i volti dei personaggi siano stati sostituiti da maschere amorfe.
La strage alla stazione di Bologna ha prodotto migliaia e migliaia di pagine tra libri, reportage e sentenze (definitive).
Fogli insiste sulla strada dove il deputato che muove le fila si chiama, nel suo libro, “l’Onorevole” (complimenti per la fantasia…) e via di questo passo con Numero Uno, Didi, il Guincio, il Guercio, Pinchiopimpernacolo ecc. ecc.
Sinceramente, dopo l’ottimo romanzo di De Cataldo sulla Banda della Magliana (dove compariva “il Vecchio”), si pensava che anche nel nostro paese si fosse pronti per una sorta di “American Tabloid”. Purtroppo Patrick Fogli ci dimostra che non è così.
Però. Però “Il Divo” di Paolo Sorrentino è incentrato sulla figura di Giulio Andreotti, e nel film Andreotti si chiama Andreotti, Pomicino si chiama Pomicino, Pecorelli si chiama Pecorelli, Lima si chiama Lima e… ci siamo capiti.
Forse, come dice uno dei personaggi di Fogli, “qui manca la volontà”.
Il risultato è un romanzo mediocre. Fallimentare nell’invenzione narrativa e nella ricostruzione storica.
Per riassumere il romanzo userei una frase che compare a pagina trentasette (il correttore si era, giustamente, addormentato prima):
La rapina non è mai centrata niente”.
L’epitaffio perfetto per la narrativa di Fogli ed i suoi labili, per non dire inesistenti, contatti con la letteratura.Le parole esistono: bisognerebbe avere il talento e il coraggio di scriverle. Non cercate in questo libro né una cosa, né l’altra. Non le troverete.

venerdì 14 novembre 2008

Pronto al salto. Forse. "Il gregario" di Paolo Mascheri

[POST RIMOSSO]

Avevo contattato l'autore per alcune domande, ma se ne è uscito dicendo "con tutta franchezza" che non può rispondere a un'intervista che segue una recensione dove
si paragona la scrittura del romanzo, in alcuni punti, all'aforisma (in effetti che brutta parola... forse ad Arezzo è un insulto, vai a sapere...).

Però, guadagnate il video di una canzone stupenda:
Iron and Wine, "Naked As We Came", dall'album "Our endless numbered days".

venerdì 7 novembre 2008

Sofia

Speriamo sia saggia (come dice il suo nome). Di sicuro è femmina.
Oggi, prima dell'alba, è nata Sofia.

giovedì 6 novembre 2008

Okkervil River e altri

Con l’ultimo album i Deerhoof (San Francisco) approfondiscono la vena rock e sperimentale degli ultimi lavori. “Offend Maggie” (2008) racchiude tracce dove la voce di Satomi Matsusaki si incolla alla melodia trasformando le parole in un’appendice del suono. Un buon disco.



Da Chicago invece arrivano i Bound Stems, con “The Family Afloat” il gruppo si distacca dal precedente “Appreciation Night” e raggiunge vette inaspettate. Il suono è stupendo anche se, come dice la Pitchfork Review, a volte il tutto è tenuto insieme con il chewing gum.



Ed ecco gli Okkervil River

Non è strano che Uncut, la rivista che ha dato cinque stelle al capolavoro del déjà entendu, ovvero “Stay Positive” degli Hold Steady, sia stata una tra le più avare verso questo album.
Semplice: gli Okkervil River scrivono una musica originale, elegante, di forte impatto con pezzi capaci di trascinare la platea come "Lost Coastlines" e altri più riflessivi come “Pop Lie”.
The Stands Ins” è un vero capolavoro, un album con influenze rock e indie completamente rivisitate. Se il precedente “The Stage Names” era un disco innovativo, qui il gruppo di Will Sheff unisce alla ricchezza dei suoni un’apertura all’ascoltatore che rende il primo approccio più semplice. Lo chiamano southern rock, ma in fondo è solo ottima musica.



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