E povero me che ti leggo, caro Giralt Torrente, o meglio ti ho letto, un po’ a casa, distratto dalle forme del parquet, un po’ seduto sotto un albero, prima di iniziare a lavorare, guardando l’orologio aspettando di telefonare al mio amore. In fondo solo povero te.
Madre, padre, e due fratelli, anzi un fratello e un fratellastro (il birichino è il padre…). E soprattutto il protagonista, il fratello di cui sopra, e sua moglie Marta. Fine.
Il lungo monologo del protagonista si trasforma in un’analisi dell’infanzia, dell’amore, e della vita in generale. “Gli esseri felici” di Marcos Giralt Torrente è un trattato di anatomopatologia dei sentimenti. La narrazione procede come un’imbarcazione governata ora con mano sicura, ora abbandonata alla corrente.
L’autore di fronte a una materia tanto vasta non riesce sempre a padroneggiare il racconto, d'altronde fin dalle prime pagine dichiara che: “raccontiamo storie mutile non perché vogliamo farlo, ma perché qualsiasi storia, per quanto possa essere puro il suo proposito, ha vari modi di essere narrata e non è possibile utilizzarli tutti. L’unica risposta a perché si racconta è lo stesso raccontare”.
La molteplicità è un’ossessione che ritorna più volte, le possibilità immaginate e non realizzate sono un tema analizzato a fondo: a questo punto è naturale che le onde travolgano il narratore ed il racconto inizi ad andare alla deriva.
Amore e morte, topoi dell’arte, spingono a parlare e a narrare. “Abbiamo paura dell’amore perché conduce alla verità, mentre per continuare a vivere abbiamo bisogno della finzione”. Le verità sull’amore… parlare d’amore, in maniera esplicita, significa camminare su un terreno minato da stereotipi. Ogni frase rischia di scivolare nel déjà-entendu di un bacio perugina.
L’inizio del romanzo-monologo è ben calibrato, i passaggi temporali, le pause, le rivelazioni e le riflessioni non banali inducono a proseguire la lettura. Bisogna riconoscere a Torrente, quando non gira a vuoto, di saper scrivere in modo incisivo. A proposito dell’altro topos, a cui accennavo prima, la morte, ecco le sue parole: “I morti non parlano, lasciano cassetti chiusi e magari figli, ma la loro stessa condizione immateriale li protegge dal passare del tempo, li rende forti, non come i vivi che s’indeboliscono e si contraddicono e commettono errori. Per dimenticare un morto è necessario che nessuno voglia ricordarlo. Perché un vivo sia dimenticato generalmente è sufficiente lui stesso”.
Non è di certo un’opera insulsa o spregevole come, ad esempio, la letteratura masturbatoria di Giordano, “Gli esseri felici” non è neppure un’opera riuscita, ma di questo è consapevole lo stesso autore, l’urgenza del racconto, la fragilità di un amore da vivere senza finzioni sono il riscatto per pagine vuote, e la sensazione finale è quella di aver osservato l’intimità dei personaggi e vissuto con loro. Puoi fare di meglio Marcos.
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