domenica 24 agosto 2008

L'unica verità. Sportswriter di Richard Ford.


Io vivo nella speranza che si manifesti una grande sorpresa in quello che è pur sempre un contesto favorevole: il cameratismo tra colleghi, l’amicizia, l’amore, la passione. Solo che, quando i fatti sono chiari e definiti, non riesco a sopportarlo e fuggo via più in fretta che posso […]. E’ esattamente come quando si era giovani e si pregustavano le vacanze in famiglia, e poi a viaggio finito ci si ritrovava faccia a faccia con gli involucri dei propri sogni e con la paura che la vita sarebbe stata nel complesso proprio così, gli involucri vuoti dei tuoi sogni sparsi intorno a te. Suppongo che avrò sempre paura che qualsiasi cosa sia, sia così”.

La struttura narrativa è semplice. L’anniversario della morte del primo figlio. Un viaggio a Detroit con una giovane infermiera anche lei divorziata. Il giorno di Pasqua. Però qui non risorge nessuno. Anzi. E a concludere il tutto un epilogo situato a mesi e chilometri di distanza. Un esile, ma fondamentale frammento della lente attraverso cui Richard Ford racconta “l’unica verità che non può essere una menzogna, la vita stessa: la cosa che accade”.
Sportswriter” è una lunga narrazione in prima persona della vita di Frank Bascombe, un giornalista sportivo di trentotto anni. Nel presente del racconto si inseriscono, senza soluzione di continuità, lunghi passaggi dove i ricordi sono rivissuti attraverso lo sguardo dell’esperienza. Siamo definiti più dalle nostre sconfitte, che dalle vittorie. Ford racconta semplicemente di Frank e coinvolge il lettore in una vita suscitando “un piacere che ha una disperata sfumatura di desiderio”.
La scrittura avvolge il lettore. Le parole assumono una consistenza densa. Gli eventi narrati sono momenti del quotidiano e solo attraverso gli occhi del lettore acquistano un nuovo significato.
Parlando della sua breve esperienza come insegnante Frank si lancia in un attacco contro le epifanie joyciane; Ford non insegue le epifanie, perché non ne ha bisogno. E avvicinandosi alla vita nella sua continua sottrazione e aggiunta di eventi, nella sua algebra delirante dove il risultato è sempre inaspettato, che Ford riesce a raccontare Frank Bascombe. Alcuni potrebbero annoiarsi, forse. Probabilmente sono le stesse persone che arrivano a definire noioso “Underworld” di DeLillo. Non voglio paragonare le due opere. Troppo diverse. E’ una questione di ritmo e di stile. Simili la consistenza delle parole e l’emozione di alcune scene, come quella vicino al Ground Zero Burg (il libro è del 1986) dove Frank parla con una ragazza sconosciuta: “Le sue speranze di una buona giornata, suppongo, sono le stesse che ho io. Siamo tutti e due fuori al vento, in attesa, disponibili a un miglioramento. E io spero che un po’ di fortuna attraversi la strada di tutti e due. La vita non è sempre in salita”. Romanzi come “Sportswriter” lasciano il lettore con un senso di libertà, speranza e un’aspettativa rinnovata verso tutto quanto. Un atteggiamento che contiene il germe della delusione e che è insieme quanto di più vicino alla felicità si possa sperimentare. Almeno attraverso la letteratura.

venerdì 22 agosto 2008

Un pregio... (e cento difetti)


Alcune idee divertenti non bastano a fare un buon romanzo. La Scuola Elementare Cavalieri dello Zodiaco, la Foca-Cola, la piazza Pikachu, il reality show San Patrignano: l’universo della pubblicità e della televisione deformato da Marco Lazzarotto è al centro di “Le mie cose”. Collocato in un tempo preciso, come ogni satira, il romanzo nasce già vecchio e superato, probabilmente il mio giudizio è viziato dal fatto che sto leggendo un libro di Richard Ford del 1986 che ha il dono di parlare al lettore di qualsiasi tempo e luogo (si chiama letteratura): “Le mie cose” non ha una scrittura entusiasmante e l’ironia serve a poco quando l’autore non sembra avere altri argomenti. Un pregio: è breve. Ma il problema è che, per quanto breve, in realtà sarebbero bastate quattro pagine per contenere lo straordinario (seh...) umorismo di Lazzarotto, e forse già quattro sarebbero state troppe. Se dovete spendere soldi, compratevi l’album di Angus and Julia Stone, “A book like this”. Stupendo.

mercoledì 20 agosto 2008

Ho qualcosa da dirti


“I segreti sono la mia valuta corrente. Ci traffico per guadagnarmi da vivere. I segreti nascosti nel desiderio, in ciò che le persone vogliono davvero, e in ciò di cui hanno più paura. I segreti del perché l’amore è difficile, il sesso complicato, la vita dolorosa e la morte così vicina eppure tenuta debitamente a distanza. Perché il piacere e il castigo sono così strettamente connessi? Come parlano i nostri corpi? Perché siamo noi stessi la causa delle nostre malattie? Perché desideriamo il fallimento? Perché il piacere è difficile da sopportare?”

Lo ammetto. Ero fiduciosa. Kureishi sembrava avere molto da dire, piazzando un incipit così, che sembra prenderti alla gola. Ci speravo. In poco più di 450 pagine mi darà delle risposte. E’ questo che facciamo. Cerchiamo noi stessi, le nostre risposte, le soluzioni. E se qualcuno, a volte, le trova per noi, siamo sollevati, grati.
Si, Kureishi ha molto da dire.
La vita di uno psicoanalista di mezza età in una Londra contemporanea, un uomo incastrato nelle sue piccole ossessioni, minacciato dal ricordo di un unico amore, intrappolato tra presente e passato, non ancora in grado di essere completamente sé stesso. Un amore sconsiderato per il figlio, affetti strambi, sorelle piene di tatuaggi e ferite meno visibili di quello che sembra, amici accademici che riscoprono sesso, e amore, e tradimento, e fiducia. E il ricordo, sempre, comunque. Ognuno di noi ha questioni irrisolte dentro di sé, cose che ci portiamo dietro, grandi e piccole, e che, ascoltate o no, sono sempre lì, sull’orlo della nostra consapevolezza.Ciò che abbiamo di irrisolto è ciò che ci spinge a cercare, che non ci fa sentire mai veramente tranquilli.
E’ raro poter dire a sé stessi che ogni piega del nostro essere h
a la sua giusta collocazione. Più spesso succede che il telo si sposti a rivelare buchi, e nodi, e pezze, e strappi. Jamal si muove in una città che cresce tra integrazione e paura, ricordando un passato fatto di amicizia, amore e scoperte terribili.
Ed è naturalmente il ricongiungimento con questo passato a scatenare la parte centrale del romanzo.
Che non si lascia scappare nulla. Madri assenti, madri colpevoli, ex fidanzate in cerca d’amore, o solo di compagnia, luoghi poco raccomandabili, compari delinquenti, prostitute, amiche, pazienti. Un caleidoscopio che ogni tanto va allontanato dallo sguardo perché troppo ricco di colore, e movimento. Un continuo oscillare di tempi, tra il passato delle rivolte operaie, degli scioperi, delle scoperte, e il presente di un uomo di mezza età che in fondo vuole solo una sorta di pace, e non riesce a trovarla perché nel momento in cui ha tra le mani una soluzione, vede già la possibile alternativa. Il Destino, ciò che la vita continua a riportare sotto il nostro sguardo, le occasioni che ci chiedono attenzione, e noi troppo stanchi, forse, troppo rassegnati per accorgercene.
Non ho percepito gioia nel libro di Kureishi; la gioia sembra essere diventata merce rara.
Anche perché parlando di malinconia, e scelte sbagliate, e rimpianti, sai di aver già attratto tutti coloro che si sentono nello stesso modo. Perché tutti cerchiamo qualcosa in un libro. Ritroviamo le nostre ossessioni, e le nostre fragilità, e scorriamo le pagine in modo ansioso, sperando in qualcosa che possa far respirare anche noi.
Malinconia.
Questo è quello che ho provato chiudendo il libro. Tutte queste cose in potenza, in attesa di accadere e di concludersi. Ci sono nodi che vengono al pettine, ma è come se mancasse sempre qualcosa. E mi ritrovo a pensare che quel qualcosa, forse, non è altro che pace. La pace di avere ciò che si vuole. La pace dell’assenza di domande. La pace di un amore che sai ci sarà per sempre.

lunedì 11 agosto 2008

Ma perché? Ovvero Breve storia di una piccola città di T. R. Pearson


Breve storia di una piccola città” di breve non ha nulla, infatti è lungo 550 pagine, mentre di piccolo ha sicuramente il talento dell’autore. Da più parti questo viene definito un libro divertente. Forse nel 1985 quando è stato scritto l’umorismo aveva altre regole e ritmi, ma non credo sia un problema di tempo e di gusti. Thomas Reid Pearson di Winston-Salem, North Carolina, scrive usando lunghi periodi barocchi per drappeggiarli intorno al nulla. Perché è precisamente di questo che parla il romanzo: di niente. La storia corale dei vari personaggi che popolano l’immaginaria città di Neely è un’inutile elenco di fatti che non vengono nobilitati dalla poesia o dall’arte dell’autore, ma rimangono poveri esempi di un narrare collassato su se stesso.
Sempre il lettore è in grado di capire, generalmente un’ora prima, dove vuole andare a parare l’autore. Sappiamo che qui sta iniziando a costruire una situazione grottesca, che tra poco arriverà l’inevitabile battuta comica che non farà ridire nessuno, che il tono virerà verso il tragico, ed il lettore è sempre avanti rispetto all’autore. Thomas Reid Pearson di Winston-Salem, North Carolina, è uno scrittore che indugia sulle parole, coccolandole, se sapesse scrivere questo sarebbe un dono, purtroppo invece sarebbe stato un bene per tutti se avesse continuato a fare l’imbianchino. Il libro nel 1985 è stato salutato dalla critica americana come un esordio narrativo straordinario. Nel 1985 usciva anche “Meno di zero” di Bret Easton Ellis che raccontava con altro stile una realtà lievemente diversa da questa placida arcadia del Sud: da una parte la Los Angeles della band “X” e degli eccessi, dall’altro il paesaggio di Thomas Reid Pearson, un luogo ottuso e ovattato, il Sud, però non quello di “Deliverance” (“Un tranquillo weekend di paura”) di John Boorman, in T. R. Pearson siamo di fronte a un Sud immaginato, un luogo conservato sotto ettolitri di benzodiazepine. Un anno dopo “Breve storia di una piccola città” usciva il film “Blue Velvet” di David Lynch che raccontava ancora con tutt’altro stile, per fortuna, l’inquietudine nascosta dietro la placida facciata della provincia americana. Guardando il romanzo nel suo contesto e considerando che il film “Deliverance”, tratto dal romanzo di Dickey, è del 1972, viene da chiedersi perché a distanza di ventitre anni un’opera tanto inutile venga tradotta e pubblicata in Italia: il mistero è celato in qualche mente che lavora presso la Elliot Edizioni di Via Isonzo 34, 00198, Roma.
Il finale del libro sembra una ribellione verso la marcia funebre che accompagna l’intero romanzo e suscita una debole compassione. La comicità o ogni sentimento che filtra attraverso la scrittura di Thomas Reid Pearson di Winston-Salem, North Carolina (ora vive in Virginia, ma non viene detto dove, per tutelare la sua vita suppongo), ogni sentimento filtrato attraverso il vuoto della scatola cranica dell’autore è una pallida eco di un’idea che forse, ma è un’ipotesi, forse in altre mani sarebbe potuta essere qualcosa di originale. Il lettore intuisce che T. R. P. vuole davvero raccontare qualcosa, ma proprio non è in grado di farlo. Vuole essere comico, vuole, vuole e non ci riesce.
Pearson ha collaborato alla sceneggiatura di alcuni film tratti dalle opere di John Grisham. Questo è scritto nelle sue note biografiche, proprio alla fine, e suona come un epitaffio. Spero che la Elliot Edizioni di Via Isonzo 34, 00198, Roma, eviti di tradurre altre opere di una noia devastante come questa.