Il tempo passa e il resto va
New York San Francisco. Primavera 1963.
“Sempre intatti dentro questo libro”.
Phil e Peter partono da New York, attraversando un’America sulla soglia della caduta; nel viaggio si consumerà il rito di passaggio all’età adulta. Il viaggio è oltrepassare alcune soglie, e spesso, troppo tardi, ci si accorge che non si può tornare indietro.
Nell’essenziale e dolorosa postfazione, il racconto di viaggio è messo in prospettiva. Peter S. Beagle perderà il suo amico Phil: per oltre vent’anni non si parleranno. Codardia, impossibilità di scegliere, e in ultimo responsabilità: una nuova vita chiede una dedizione totale, altro che l’eroina di Lou Reed.
Anch’io non parlo con un amico da più di dieci anni. In effetti era parecchio pallido l’ultima volta che lo vidi. L’areazione non è il massimo quando sei su un tavolo di marmo del dipartimento di medicina legale. Probabilmente da allora sono una persona peggiore e migliore allo stesso tempo.
Una grossa fetta di mondo (persone appese a fragili menzogne incluse) non sembra più esistere. Credevamo. Non so bene in cosa, però. Sicuramente era obbligatorio ridere, tentando un tiro da tre punti, sospesi a mezz’aria. E tanti libri seriosi, stupidi, completamente falsi suscitano ora quasi compassione, mentre un tempo sarebbero stati materia di scherno. Era tutto uno scherzo. L’esame di maturità, una passeggiata. La tabella coi risultati veniva appesa, mentre noi eravamo tra Calais e Dover.
Spero che Beagle non si offenda. Anche il suo libro comprende ampie divagazioni. Gli scooter, Jenny e Couchette (ognuno chiama le cose come gli pare), sempre sul punto di rompersi (soprattutto Jenny), sono le macchine del tempo di Peter e Phil. E’ il 1963, passeranno più di quindici anni prima che William Least Heat-Moon scriva il suo capolavoro “Strade blu”, ma soprattutto è primavera, e il novembre di Dallas, della collina del killer, di Kennedy, l’inaugurazione della caduta dell’America sembra distare secoli.
In fondo tutti i libri sull’amicizia (e tralasciamo i versi di Omero) sono sempre qualcosa d’altro. Penso a “Il lungo addio” di Raymond Chandler, ma anche a esempi più recenti, come il rigurgito di Craig Silvey, “Jasper Jones” (tradotto perché in Australia è arrivato in alto nella classifica delle vendite, e allora spero che l’Australia sia invasa dai libri di Gramellini e Geda). Anche Peter vuole raccontare di più. E lo fa.
“E’ sempre il giorno dopo domani quello che inseguiamo e di cui abbiamo paura”.
A S. in memoria: alla fine mi sono fermato.
Peter S. Beagle, “Una lunga strada da fare. New York San Francisco. Primavera 1963” (ed. or. 1965), pp. 279, 18 euro, Mattioli 1885, 2010.
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