D'Ambrosio non è un autore che colpisce particolarmente, piuttosto i suoi racconti si schiantano contro il cervello come auto in un crash-test. Questa raccolta di racconti (il suo esordio nel 1995) presenta sette storie. In tutte, a dispetto dell’età del protagonista, adolescente o ormai adulto, incombe un’immagine di lutto o più semplicemente di perdita.
“La punta” (che dava il titolo all’edizione originale) è uno dei migliori racconti (non suoi, in assoluto): Kurt, il protagonista, è un adolescente che diventa saggio troppo in fretta. Gli adulti ubriachi accompagnati per mano alle loro case. I tradimenti. Le famiglie disintegrate. Tutto viene metabolizzato da Kurt e diventa sulla pagina qualcosa di incredibile, così dannatamente bello da strappare un sospiro al solo ricordo.
La prosa di Charles D’Ambrosio è in grado di aderire alle storie e ai personaggi in modo sempre nuovo. A volte i periodi si aprono uno dopo l’altro come petali di un fiore, una cascata di frasi perfettamente legate. Altre volte si procede per stacchi più brevi. Lo stile è suo, anche se inevitabilmente si sono fatti i nomi di Carver e Yates (e questa raccolta non ha niente da invidiare a nessuno dei due).
Anche nel terzo racconto è un adolescente a parlare. L’illusione del tono ironico è poi confutata dalla pesantezza della vita. D’Ambrosio in poche pagine può descrivere il momento di perdita di innocenza di una vita intera e lo fa con un tocco tanto leggero che ve ne accorgerete solo pronunciando le frasi finali.
E’ molto chiaro che questi racconti sono stati scritti e riscritti. Non si può arrivare a questo livello soltanto con il talento.
Il tema del viaggio o piuttosto del vagare è presente sia in “Il suo vero nome”, sia in altri racconti:
“C’era la città in cui le famiglie si sedevano a cena tutte insieme, la città in cui gli uomini portavano camicie inamidate e pagavano le bollette, la città in cui i bambini andavano a scuola con i panini avvolti nella carta oleata e una mela che la mamma lucidava sul grembiule. Ma adesso mi sembrava di non saperci tornare, in quella città”.
E il vagare è solo un altro modo per dire ricerca. Come la ricerca di uomini dispersi nella neve del racconto “Jacinta”: “Con il passare del tempo, la minima traccia dava vita alle più esagerate aspettative. […] Oppure, in quegli improvvisi, attutiti silenzi che a volte calano in montagna, quando il vento muore e tutto resta sospeso in una quiete cristallina, capitava che qualcuno sentisse il pulsare delle proprie vene e lo scambiasse per il battito del cuore di un altro”.
Quello che ci accomuna è il dolore. Sempre. E, poi, che sia la ragazza de “Il suo vero nome”, il padre di Kurt o una piccola bambina, al fondo (che non si sa bene dove sia, ma è lì) c’è ovunque lo stesso cartello. Il problema è che ci dimentichiamo di leggerlo.
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