martedì 6 gennaio 2009

I padroni del cibo di Raj Patel

L’anestesia del supermercato

E’ chiaro che il tempio del sistema alimentare, ovvero il supermercato, sia qualcosa di più di quello che appare. Superati i primi imbarazzanti capitoli, “I padroni del cibo” si accende di una fiamma insospettata: pur non scrivendo una capolavoro, Raj Patel riesce ad accendere idee nuove, trasformare le percezioni che abbiamo di eventi banali come il movimento di un carrello della spesa.
Abbandonato alla sua inerzia il trabiccolo di metallo è un cigolante reliquario di cosa? Bene, questo sta a noi deciderlo.

Non puoi disistruire le persone che hanno imparato a leggere
Cesar Chavez (1927-1993).

Il reportage giornalistico ha spesso originato capolavori della saggistica, penso a Pollan o a Schlosser.
Se “Fast Food Nation” è stato una sorta di atto fondante per l’analisi del cibo e del nostro rapporto con gli alimenti, i libri che lo hanno seguito non sempre si sono dimostrati altrettanto validi. Patel è un docente universitario. Probabilmente le sue saranno lezioni interessanti, ma poiché non ho intenzione di frequentare un corso alla KwalaZulu-Natal University, non credo che lo saprò mai. La prima parte del libro è deludente. Si può riassumere con “multinazionali cattive, cattive”; se avete un’idea delle azioni della Monsanto, del concetto di biopirateria, allora vi conviene leggere mooolto velocemente. Raj Patel non è uno scrittore e si vede, ma naturalmente questo è un saggio ed è rilevante parlare delle informazioni che fornisce. Nella seconda metà, trattando argomenti meno volatili, Patel riesce ad essere proporzionalmente meno soporifero. Il Movimento dei contadini senza terra, la politica di Wal-Mart o di Carrefour, il brevetto del primo supermercato offrono spunti davvero interessanti. La nuova tecnologia EPC è incredibilmente diabolica, il libro ve ne offre un’anteprima. Anche nell’analizzare il movimento di Slow Food, Patel evidenzia il punto cruciale: ovvero consentire attraverso una salario decente l’accesso ad alimenti salutari da parte di fette più ampie di popolazione. Quando Carlo Petrini fa l’esempio tra il costo del suo cellulare e quello di un formaggio: “Il cibo dovrebbe essere più caro. Siamo disposti a pagare tanto per questo [il telefono cellulare], ma non per un formaggio come si deve” rivela un atteggiamento di per sé perdente. Innanzitutto è una generalizzazione stupida, la tecnologia tende ad abbassare i prezzi su un medesimo prodotto. Il cellulare che posseggo era stato messo in vendita a circa 250 euro 9 mesi fa (non è uno smartphone), mentre ora è possibile acquistarlo nella grande distribuzione per 190, invece su un piccolo portale internet mi è costato, comprese le schede di memoria aggiuntive, 130 euro. Inoltre non compro un telefono al giorno o al mese (ma in media ogni 2 anni), mentre devo mangiare tutti i giorni. Anche l’evidente contraddizione tra ciò che è tradizionale e il mescolarsi di etnie e culture diverse, mette in dubbio alcune delle idee di Slow Food. Se Patel, in fondo, difende in parte il movimento, la mia impressione rimane quella di grassi e benestanti borghesi affondati nel lardo di Colonnata.“Il rapporto tra chi mangia e produce cibo non può essere misurato in termini di fedeltà o dollari spesi. Mandare in corto circuito il sistema alimentare, e conoscere la gente che produce il nostro cibo, è qualcosa di più che favorire un contatto tra acquirente e venditore, significa creare un legame che va oltre la semplice transazione […] E’ questo che rende la sovranità alimentare assai più ricca, e arricchente, di una forma etica di edonismo per chi se la può permettere”.

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