martedì 27 gennaio 2009
Il suo vero nome di Charles D'Ambrosio
“La punta” (che dava il titolo all’edizione originale) è uno dei migliori racconti (non suoi, in assoluto): Kurt, il protagonista, è un adolescente che diventa saggio troppo in fretta. Gli adulti ubriachi accompagnati per mano alle loro case. I tradimenti. Le famiglie disintegrate. Tutto viene metabolizzato da Kurt e diventa sulla pagina qualcosa di incredibile, così dannatamente bello da strappare un sospiro al solo ricordo.
La prosa di Charles D’Ambrosio è in grado di aderire alle storie e ai personaggi in modo sempre nuovo. A volte i periodi si aprono uno dopo l’altro come petali di un fiore, una cascata di frasi perfettamente legate. Altre volte si procede per stacchi più brevi. Lo stile è suo, anche se inevitabilmente si sono fatti i nomi di Carver e Yates (e questa raccolta non ha niente da invidiare a nessuno dei due).
Anche nel terzo racconto è un adolescente a parlare. L’illusione del tono ironico è poi confutata dalla pesantezza della vita. D’Ambrosio in poche pagine può descrivere il momento di perdita di innocenza di una vita intera e lo fa con un tocco tanto leggero che ve ne accorgerete solo pronunciando le frasi finali.
E’ molto chiaro che questi racconti sono stati scritti e riscritti. Non si può arrivare a questo livello soltanto con il talento.
Il tema del viaggio o piuttosto del vagare è presente sia in “Il suo vero nome”, sia in altri racconti:
“C’era la città in cui le famiglie si sedevano a cena tutte insieme, la città in cui gli uomini portavano camicie inamidate e pagavano le bollette, la città in cui i bambini andavano a scuola con i panini avvolti nella carta oleata e una mela che la mamma lucidava sul grembiule. Ma adesso mi sembrava di non saperci tornare, in quella città”.
E il vagare è solo un altro modo per dire ricerca. Come la ricerca di uomini dispersi nella neve del racconto “Jacinta”: “Con il passare del tempo, la minima traccia dava vita alle più esagerate aspettative. […] Oppure, in quegli improvvisi, attutiti silenzi che a volte calano in montagna, quando il vento muore e tutto resta sospeso in una quiete cristallina, capitava che qualcuno sentisse il pulsare delle proprie vene e lo scambiasse per il battito del cuore di un altro”.
Quello che ci accomuna è il dolore. Sempre. E, poi, che sia la ragazza de “Il suo vero nome”, il padre di Kurt o una piccola bambina, al fondo (che non si sa bene dove sia, ma è lì) c’è ovunque lo stesso cartello. Il problema è che ci dimentichiamo di leggerlo.
venerdì 23 gennaio 2009
Kismet di Jakob Arjouni
Nel quartiere a luci rosse si sta assistendo a una lotta tra bande per la conquista del potere:
“Si aveva la sensazione che nella zona della stazione di Francoforte si stesse tenendo una sorta di olimpiadi del crimine. L’importante era partecipare”.
Insieme all’ex pusher Slibulsky, ora a capo di una catena di gelaterie ambulanti, Kemal cercherà di proteggere un amico, sebbene non nutra per lui particolari simpatie e s’imbatterà in un traffico di persone, finanziamenti statali, documenti, estorsioni. Un’allegra banda di nazionalisti croati con la passione per gli esplosivi animerà l’intera trama, lasciando, ovviamente, qualche cratere qui e là.
Arjouni è molto abile nel tratteggiare i personaggi. E anche l’ambiente è reso con spessore e luminosità. Quando si reca ad Offenbach, la sua descrizione si è subito intrecciata con i miei ricordi di Essen, un posto in cui per attraversare il corso centrale si fa prima a prendere un taxi. I pedoni fuori dalle strisce sono come birilli in un gioco a premi. Evidente che nella noia cittadina di boulevard enormi, e piccole vie con sexy shop e ristoranti turchi o slavi o steak house di catena, si volesse creare uno sport alternativo per i potenti motori tedeschi. Kemal, non c’è bisogno di dirlo, guida una opel sputacchiante fumo. Ambientato nel 1998, ma scritto nel 2001, “Kismet – Destino” rappresenta uno dei maggiori successi dell’autore tedesco. Il titolo è dovuto alla figura di Leila, una ragazzina croata allo sbando, e alle strane coincidenze della vita: la ricerca della madre di Leila si concluderà in modo inaspettato, ma nel destino sono scritte molte cose, alcune si possono cambiare, altre invece occorre accettarle come sono, e voltare pagina. Pagine che volano in questo romanzo, leggero, ma non vuoto, raccontato in prima persona da Kemal con la giusta dose di ironia e cinismo:
“Questo è il fulcro di tutto: varcare una soglia oppure no. Di motivi ce ne sono sempre. I motivi sono la cosa più noiosa del mondo”.
mercoledì 21 gennaio 2009
Appaloosa di Ed Harris
Il noir è il proseguimento del western con altri mezzi (e ora la frase può essere ribaltata, senza dimenticare la cronologia dei fatti, certo). “Appaloosa”, firmato ed interpretato da Ed Harris, è solo l’ultimo segnale del ritorno di un genere solitamente archiviato frettolosamente e senza nessun approfondimento. Sam Peckinpah con “Il mucchio selvaggio” (1969) aveva già stabilito un nesso fortissimo tra western e situazioni reali e vivide (nel caso di Peckinpah avevamo il conflitto armato in Vietnam e un storia epica macchiata di sangue, dove tutto può anche ridursi a una battuta emblematica per brevità e forza: “Why not?”). La recente pubblicazione da parte di Einaudi della raccolta di racconti western di Elmore Leonard, oppure, negli scorsi anni, le tre stagioni del fantastico serial tv “Deadwood”, sono indizi recenti della riscoperta delle possibilità narrative di un genere archetipo. Se uno non ha letto i racconti western di Elmore Leonard, allora non ha letto niente: non è proprio così, ma, tra muri di adobe e cespugli di mesquite, Leonard crea una narrativa di grande fascino evocativo (tradotto ai minimi termini: atmosfere memorabili, dialoghi geniali e la sensazione di leggere qualcosa di indimenticabile). Spesso nei racconti western incontriamo uomini che devono attraversare la linea d’ombra conradiana, ma Leonard non ci costruisce sopra un’epica con tanto di pistolotto morale. Essenzialmente a lui interessa la storia, d’altra parte aveva iniziato a scrivere i suoi racconti nel 1950 e il genere, salvo rare eccezioni, si apprestava a tramontare. Per lui ci sono uomini, carabine, Remington, Sharps, cespugli di mesquite e chaparal tra l’Arizona e il New Mexico; un paesaggio grigio-verde, di rocce e canyon. Elmore Leonard era già un maestro del racconto ai suoi esordi: azione, dialoghi, qualche descrizione e poche intromissioni nei pensieri dei protagonisti.
Chi sono le persone spesso è qualcosa che viene meglio descritto dai loro gesti, piuttosto che da un’analisi psicologica. Proprio in questo senso si muove “Appaloosa”. Ed Harris, che interpreta lo sceriffo Virgil Cole, Viggo Mortensen, il suo vice, Everett Hitch, e infine Jeremy Irons, l’avventuriero senza morale, sono maschere incise sopra la polvere di Appaloosa. Tratto dal romanzo di Robert B. Parker, il film esprime sentimenti come l’amore o l’amicizia attraverso pochi gesti. Everett Hitch è anche la voce narrante che interviene a tratti in questo splendido racconto. Un film dove le parole spesso sfuggono (divertente il continuo ricorrere di Cole al suo amico per completare una frase: “Qual è la parola che voglio dire?”). Ma se le parole sfuggono, rimangono le azioni, e un finale che si chiude proprio in fondo ai titoli di coda con la canzone “You’ll never leave my heart” scritta da Harris e Jeff Beal (che cura l’intera colonna sonora) e cantata proprio da Ed Harris, ma dovete rimanere in sala fino all’ultimo, ovviamente.
lunedì 12 gennaio 2009
Il ritorno delle furie di Richard K. Morgan
Il grandissimo affresco di Harlan’s World, i personaggi, i dialoghi, la logorrea che quasi fa percepire l’uso di meta o altre droghe da parte dei protagonisti creano un mondo realistico in modo estremo. Mai avrei pensato di spingermi tanto lontano. Purtroppo in Italia la science fiction o sf non gode di buona salute e un rapido sguardo agli scaffali delle librerie, anche non di catena, rende chiaro il messaggio: è un genere senza mercato troppo spesso appollaiato di fianco al fantasy come un’appendice inerte.
Come diceva Philip K. Dick: “Il vero protagonista di un romanzo di sf è un’idea. Se si tratta di buona science fiction l’idea è nuova e stimolante e, cosa più importante, mette in moto nella mente del lettore una reazione a catena, una ramificazione di idee: in altre parole comincia a creare. La sf è creativa e ispira la creatività”.
Queste parole famose, scritte pochi mesi prima di morire, sono per me la sintesi di ciò che dovrebbe essere la science fiction o sf o fantascienza. “Woken Furies” (2005) arrivato solo dopo tre anni in Italia, con l’attenta traduzione dell’ormai mitico Vittorio Curtoni, è un brandello di un genere di grandissima potenza, con infinite possibilità di sviluppo. Adattabile a epoche, momenti e movimenti. Ma da noi la terra è arida, le menti dei lettori italiani sono terrorizzate: si chiudono come un guscio di fronte alla pesante critica e devastante evidenza della creazione della science fiction. Sempre Dick diceva che, in ultima analisi, un romanzo di fantascienza è possibile solo grazie alla collaborazione tra autore e lettore. Da noi vende Giordano, mica James G. Ballard: facile capire perché non ci sia domanda. La fantascienza è una nicchia ancora più stretta di quello che si pensa, e gli spazi non hanno, per ora, possibilità di aumentare.Il romanzo di Morgan dosa con giusta misura la costruzione intellettuale e l’azione pura in una sorta di thriller fantascientifico. Come sempre la verità rimarrà l’ultimo vero segreto.
Strabiliante e indispensabile, un romanzo da affiancare a Bay City e Angeli Spezzati nella costruzione di una trilogia perfetta, anche con le sue sbavature, nato attraverso la commistione di fumetti, cinema, space opera e fantascienza sociale, “Il ritorno delle furie” è un affresco grandioso, il migliore dai tempi di “Perdido Street Station” di Miéville. Nei ringraziamenti Morgan non dimentica di citare lo splendido romanzo di Kem Nunn “Tapping the Source” (in Italia: “Surf City”, MeridianoZero), un’ultima pennellata, prima della firma finale.
martedì 6 gennaio 2009
I padroni del cibo di Raj Patel
E’ chiaro che il tempio del sistema alimentare, ovvero il supermercato, sia qualcosa di più di quello che appare. Superati i primi imbarazzanti capitoli, “I padroni del cibo” si accende di una fiamma insospettata: pur non scrivendo una capolavoro, Raj Patel riesce ad accendere idee nuove, trasformare le percezioni che abbiamo di eventi banali come il movimento di un carrello della spesa.
Abbandonato alla sua inerzia il trabiccolo di metallo è un cigolante reliquario di cosa? Bene, questo sta a noi deciderlo.
“Non puoi disistruire le persone che hanno imparato a leggere”
Cesar Chavez (1927-1993).
Il reportage giornalistico ha spesso originato capolavori della saggistica, penso a Pollan o a Schlosser.
Se “Fast Food Nation” è stato una sorta di atto fondante per l’analisi del cibo e del nostro rapporto con gli alimenti, i libri che lo hanno seguito non sempre si sono dimostrati altrettanto validi. Patel è un docente universitario. Probabilmente le sue saranno lezioni interessanti, ma poiché non ho intenzione di frequentare un corso alla KwalaZulu-Natal University, non credo che lo saprò mai. La prima parte del libro è deludente. Si può riassumere con “multinazionali cattive, cattive”; se avete un’idea delle azioni della Monsanto, del concetto di biopirateria, allora vi conviene leggere mooolto velocemente. Raj Patel non è uno scrittore e si vede, ma naturalmente questo è un saggio ed è rilevante parlare delle informazioni che fornisce. Nella seconda metà, trattando argomenti meno volatili, Patel riesce ad essere proporzionalmente meno soporifero. Il Movimento dei contadini senza terra, la politica di Wal-Mart o di Carrefour, il brevetto del primo supermercato offrono spunti davvero interessanti. La nuova tecnologia EPC è incredibilmente diabolica, il libro ve ne offre un’anteprima. Anche nell’analizzare il movimento di Slow Food, Patel evidenzia il punto cruciale: ovvero consentire attraverso una salario decente l’accesso ad alimenti salutari da parte di fette più ampie di popolazione. Quando Carlo Petrini fa l’esempio tra il costo del suo cellulare e quello di un formaggio: “Il cibo dovrebbe essere più caro. Siamo disposti a pagare tanto per questo [il telefono cellulare], ma non per un formaggio come si deve” rivela un atteggiamento di per sé perdente. Innanzitutto è una generalizzazione stupida, la tecnologia tende ad abbassare i prezzi su un medesimo prodotto. Il cellulare che posseggo era stato messo in vendita a circa 250 euro 9 mesi fa (non è uno smartphone), mentre ora è possibile acquistarlo nella grande distribuzione per 190, invece su un piccolo portale internet mi è costato, comprese le schede di memoria aggiuntive, 130 euro. Inoltre non compro un telefono al giorno o al mese (ma in media ogni 2 anni), mentre devo mangiare tutti i giorni. Anche l’evidente contraddizione tra ciò che è tradizionale e il mescolarsi di etnie e culture diverse, mette in dubbio alcune delle idee di Slow Food. Se Patel, in fondo, difende in parte il movimento, la mia impressione rimane quella di grassi e benestanti borghesi affondati nel lardo di Colonnata.“Il rapporto tra chi mangia e produce cibo non può essere misurato in termini di fedeltà o dollari spesi. Mandare in corto circuito il sistema alimentare, e conoscere la gente che produce il nostro cibo, è qualcosa di più che favorire un contatto tra acquirente e venditore, significa creare un legame che va oltre la semplice transazione […] E’ questo che rende la sovranità alimentare assai più ricca, e arricchente, di una forma etica di edonismo per chi se la può permettere”.
sabato 3 gennaio 2009
La lingua di Canaan di John Wray
“La lingua di Canaan” è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 2005. Al centro della vicenda narrata: il Redentore. Ovvero Thaddeus Morelle (figura realmente esistita), che liberava gli schiavi e poi li rivendeva, promettendo loro una parte del denaro ottenuto per permettergli una comoda fuga negli Stati del Nord. “Un negro veniva venduto anche tre o quattro volte, poi, per evitare il rischio di essere scoperti, si eliminava l’unico testimone, vale a dire il negro stesso, gettandone il corpo nel Mississippi”. In poche parole è questa l’anima del “Commercio”: un’entità quasi surreale che unisce i vari personaggi negli anni intorno al 1862 e all’Isola 37 contesa tra gli Stati confinanti e con una giurisdizione alla Deadwood.
John Wray si sposta di personaggio in personaggio lasciando come un’impronta in ognuno, la lingua si muove a scatti, la narrazione danza intorno a Virgil Ball, Clem Gilchrist, il Colonnello, Asa Trist, Kennedy, Delamare. Lo stile inghiotte la storia. La scrittura si addensa in espressioni che evocano suoni o colori. Wray nella foga narrativa fa apparire sensazioni ovunque. Rende dialoghi e personaggi una cosa sola.
John Wray ha percorso il Mississippi un secolo e mezzo dopo i fatti realmente accaduti, “La lingua di Canaan”, oltre al frutto di una narrazione eccezionale, riesce in parte a restituire il volto di una Nazione. Brandelli. Acque torbide. “Questa nazione fu fondata sulla fede -sulla pura e semplice credulità- proprio come la Francia è stata fondata sullo scetticismo. No, mio caro, l’illuminismo non fa per noi”.
L’unica pecca del libro è l’eccesso di bravura dell’autore. “La lingua di Canaan” manca l’equilibrio raggiunto da Colson Whitehead in “John Henry Festival”. Wray rilegge il passato con lo sguardo della letteratura ipercreativa, ma sbalordire non è obbligatorio (sebbene non sia vietato).
“…le sue dita sporche non trovano alcun appiglio. La lettera di Harvey, le sephiroth, perfino il nome ‘lingua di Canaan’, più che indizi per la risoluzione di un grande rompicapo, d’un tratto paiono la battuta finale di una barzelletta”.
La lingua inghiotte tutto.
venerdì 2 gennaio 2009
After Dark di Murakami Haruki
Sebbene “After Dark” sia un’opera minore, permette nelle dimensioni del romanzo breve (accostabile anche in questo al fumetto) di evocare le sensazioni di un mondo marginale e sospeso, quasi impalpabile e prossimo a scomparire appena si cerchi di analizzarlo.
“After Dark” ricalca il titolo di un brano musicale, però ricorda anche “After Hours” di Scorsese. Gli incastri della trama e la sensazione di stupore di fronte alla realtà o al fantastico, sempre intercambiabili, lasciano il sapore di un déjà vu, ricco di simboli e significati, su cui non faremo mai del tutto chiarezza.
“Quali che siano le intenzioni di ognuno di noi, veniamo trascinati insieme lungo lo scorrere del tempo alla stessa velocità”.