“La medicina ci permette di vivere, la poesia ci suggerisce come vivere”.
Alice Brill avverte che qualcosa non è come dovrebbe essere. E’ una paura confusa. “Lo sentii nel petto, dietro lo sterno dove si infilano le brutte notizie come pubblicità indesiderata attraverso la feritoia della porta”.
Dopo aver frequentato un corso di scrittura, Alice ha lavorato come editor, fino a quando, a causa di una fusione aziendale, non è stata licenziata. Ora è un editor freelance, raccoglie i manoscritti che le inviano e aiuta gli autori a migliorarli. E’ la dottoressa dei libri. “L’editing è molto simile alla medicina con i suoi processi di diagnosi, prognosi e trattamento”.
Il rapporto con il marito, Everett, è una linea di frattura che percorre l’intero romanzo. L’amore per i tre figli. La madre uccisa da un tumore. Il padre perso in un mondo dove le luci si spengono a una a una nella lenta regressione imposta dall’Alzheimer.
Il padre dottore. La madre bellissima e perfetta. E la figlia del dottore, Alice. La bambina cresciuta in una casa piena di affetto, e nei cui ricordi, come spesso capita, si cela un dolore, un’immagine sfuocata, nascosta dietro una porta.
Hilma Wolitzer ha impiegato dodici anni, nei quali ha perso entrambi i genitori, per superare un blocco creativo e la sofferenza nella scrittura è un’eco lontana, ma continua.
E’ una storia complicata, la bellezza dello stile la rende più vicina al lettore. Alice, la voce narrante, costruisce un contatto fisico tra le parole e chi le legge. Nel suo lavoro di editor a volte le capita di incontrare gli scrittori dei manoscritti che riceve. La visita di Michael, giovane autore di un romanzo che accompagna la storia di Alice, si rivela più di un semplice diversivo nella trama.
In un capitolo assistiamo brevemente ai preparativi di una cena, e tornano alla mente alcune pagine di Katherine Mansfield. Ma non è certo il primo nome che viene in mente leggendo “La figlia del dottore”.
Hilma Wolitzer sa usare una scrittura chiarissima e pervasa in ogni parola, in ogni sillaba dal sentimento. Il lungo flusso di parole di “Mrs Dalloway” di Virginia Woolf si illumina nelle battute finali: « “E’ Clarissa”. Si disse. Poiché ecco lei era là». “La figlia del dottore” offre più volte questi momenti, durante la lettura. Una sensazione di felicità sospesa, una traccia lasciata dall’idea di un peso vicino al cuore, un groviglio che all’improvviso pare sciogliersi dispiegando tutti i suoi lembi.
Alla fine del nono capitolo, il paragrafo che inizia con “E’ questa la felicità…” è un esempio perfetto di quei brevi lampi che trasformano tutto quello che si è letto, una frase all’apparenza banale diventa carica di significato per tutte le pagine e la parole che la precedono e insieme conferisce ad esse un valore nuovo.
E’ una storia complessa raccontata attraverso la bellezza, ma è l’intera esistenza ad essere complicata certo, strappata via, ma nella vita sono rari i momenti in cui possiamo guardare le nostre azioni con la serenità che la bellezza impone. La lunga gestazione del romanzo di Hilma Wolitzer è la prova concreta della fatica di questo processo.
“La vita sembra terribilmente breve quando ci mettiamo a cercare tra la moltitudine di eventi quelli che ci definiscono meglio”. Trovare questi momenti non è semplice e riuscire a raccontarli attraverso la scrittura è qualcosa capace di far perdere un battito alle pulsazioni del cuore; in questa sua qualità il romanzo di Hilma Wolitzer, con la sua prosa limpida e appassionata, assomiglia a un lungo sospiro d’amore.
Alice Brill avverte che qualcosa non è come dovrebbe essere. E’ una paura confusa. “Lo sentii nel petto, dietro lo sterno dove si infilano le brutte notizie come pubblicità indesiderata attraverso la feritoia della porta”.
Dopo aver frequentato un corso di scrittura, Alice ha lavorato come editor, fino a quando, a causa di una fusione aziendale, non è stata licenziata. Ora è un editor freelance, raccoglie i manoscritti che le inviano e aiuta gli autori a migliorarli. E’ la dottoressa dei libri. “L’editing è molto simile alla medicina con i suoi processi di diagnosi, prognosi e trattamento”.
Il rapporto con il marito, Everett, è una linea di frattura che percorre l’intero romanzo. L’amore per i tre figli. La madre uccisa da un tumore. Il padre perso in un mondo dove le luci si spengono a una a una nella lenta regressione imposta dall’Alzheimer.
Il padre dottore. La madre bellissima e perfetta. E la figlia del dottore, Alice. La bambina cresciuta in una casa piena di affetto, e nei cui ricordi, come spesso capita, si cela un dolore, un’immagine sfuocata, nascosta dietro una porta.
Hilma Wolitzer ha impiegato dodici anni, nei quali ha perso entrambi i genitori, per superare un blocco creativo e la sofferenza nella scrittura è un’eco lontana, ma continua.
E’ una storia complicata, la bellezza dello stile la rende più vicina al lettore. Alice, la voce narrante, costruisce un contatto fisico tra le parole e chi le legge. Nel suo lavoro di editor a volte le capita di incontrare gli scrittori dei manoscritti che riceve. La visita di Michael, giovane autore di un romanzo che accompagna la storia di Alice, si rivela più di un semplice diversivo nella trama.
In un capitolo assistiamo brevemente ai preparativi di una cena, e tornano alla mente alcune pagine di Katherine Mansfield. Ma non è certo il primo nome che viene in mente leggendo “La figlia del dottore”.
Hilma Wolitzer sa usare una scrittura chiarissima e pervasa in ogni parola, in ogni sillaba dal sentimento. Il lungo flusso di parole di “Mrs Dalloway” di Virginia Woolf si illumina nelle battute finali: « “E’ Clarissa”. Si disse. Poiché ecco lei era là». “La figlia del dottore” offre più volte questi momenti, durante la lettura. Una sensazione di felicità sospesa, una traccia lasciata dall’idea di un peso vicino al cuore, un groviglio che all’improvviso pare sciogliersi dispiegando tutti i suoi lembi.
Alla fine del nono capitolo, il paragrafo che inizia con “E’ questa la felicità…” è un esempio perfetto di quei brevi lampi che trasformano tutto quello che si è letto, una frase all’apparenza banale diventa carica di significato per tutte le pagine e la parole che la precedono e insieme conferisce ad esse un valore nuovo.
E’ una storia complessa raccontata attraverso la bellezza, ma è l’intera esistenza ad essere complicata certo, strappata via, ma nella vita sono rari i momenti in cui possiamo guardare le nostre azioni con la serenità che la bellezza impone. La lunga gestazione del romanzo di Hilma Wolitzer è la prova concreta della fatica di questo processo.
“La vita sembra terribilmente breve quando ci mettiamo a cercare tra la moltitudine di eventi quelli che ci definiscono meglio”. Trovare questi momenti non è semplice e riuscire a raccontarli attraverso la scrittura è qualcosa capace di far perdere un battito alle pulsazioni del cuore; in questa sua qualità il romanzo di Hilma Wolitzer, con la sua prosa limpida e appassionata, assomiglia a un lungo sospiro d’amore.
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