E' diveretente come Lodoli su La Repubblica di oggi (28 febbraio pag. 49) usi per demolire l'ottima raccolta di racconti "Knockemstiff" (recensita già qui) un particolare come i ringraziamenti posti a fine libro. Lettore attento, Marco Lodoli, peccato che riesca a definire l'autore Donald Ray Pollock "giovane": caro Lodoli, guarda che anche se questo è il suo esordio, e anche se la vita media si allunga sempre più, non puoi definire giovane uno scrittore che deve compiere 55 (cinquantacinque) anni, Non è vecchio, ci mancherebbe, ma arrivare a scrivere "giovane scrittore americano di cui la Elliott ecc."!
Insomma, un recensore, giusto quelle due righe sulla biografia dell'autore, sarebbe bene che le leggesse.
I particolari sono importanti. Forse le recensioni di Lodoli un po' meno.
sabato 28 febbraio 2009
domenica 22 febbraio 2009
Partitura finale di Ian Rankin
Con “Partitura finale”, Ian Rankin affronta il romanzo numero diciassette dedicato all’Ispettore John Rebus. Il caso di un poeta russo morto in King’s Stables Road si intreccia alle vicende del nuovo parlamento scozzese, magnati russi e vecchie conoscenze come Big Gear Cafferty. Diversi dialoghi sono ricchi di un’ironia e un umorismo che servono a bilanciare l’uscita di scena di Rebus. E’ un vero divertimento leggere alcune pagine con il sorriso sulle labbra, salvo poi pensare che si ha in mano il volume finale della serie dedicata a John Rebus. I capitoli scandiscono i giorni che mancano al pensionamento dell’investigatore e, sebbene Ian Rankin non abbia escluso del tutto la possibilità di scrivere ancora dell’ispettore Rebus, con “Partitura finale” si chiude di certo un ciclo, con John Rebus fuori dagli uffici dell’Investigativa.
A volte l’umore vira verso il tetro con Rebus intento a leggere i necrologi sul giornale. Si respira una aria da final exit anche se nel titolo originale del romanzo il tutto diventa “Exit Music”, vista la grandissima passione dell’autore e del suo protagonista per la musica e la capacità di inserirla all’interno del romanzo come una sorta di colonna sonora. “Nello stereo c’era un disco di John Hiatt, a basso volume. Il pezzo s’intitolava Lift Up Every Stone, «tira su tutti i sassi»: lui non aveva fatto altro, per tutto il tempo che era stato in polizia. Solo che Hiatt voleva costruirci un muro con quei sassi, mentre Rebus si limitava a scrutare il fuggi-fuggi degli esserini scuri che ci trovava sotto”.
Poi abbiamo altri autori: i Tangerine Dream (che l’autore ascoltava mentre scriveva il libro), Randy Newman, Tom Waits e altri ancora.
Siobhan Clarke rimane al fianco dell’investigatore anche in questo caso e si prepara al cambio di consegne (con il pensionamento di Rebus sarà probabile il suo avanzamento al grado di Ispettore). La vicenda ha come sempre una trama molto ben costruita, estremamente complessa, con colpi di scena e un buon finale, forse non ottimo. Cosa che potrebbe far ritornare l’autore sui suoi passi a riprendere il personaggio di John Rebus. Che questo nelle intenzioni di Rankin dovesse essere l’ultimo romanzo della serie è sottolineato anche dal fatto che l’incipit riprende quello del primo romanzo “Cerchi e croci” (ed. or. 1987): come a voler chiudere definitivamente un’epoca.
Il futuro è incerto: il nuovo thriller di Rankin “Doors Open” (2008) è il primo senza Rebus come protagonista da circa dieci anni, ma il fascino dell’ispettore, presumo, potrà sicuramente cambiare i progetti dell’autore, che già nelle ultime interviste si è dimostrato meno certo. Come si è detto si è chiuso un ciclo, più che un’intera serie. Forse. D’altra parte il materiale non manca, infatti Rebus “ormai da un pezzo aveva capito come stavano le cose: non era la malavita che bisognava temere, ma le vite rispettabili”.
A volte l’umore vira verso il tetro con Rebus intento a leggere i necrologi sul giornale. Si respira una aria da final exit anche se nel titolo originale del romanzo il tutto diventa “Exit Music”, vista la grandissima passione dell’autore e del suo protagonista per la musica e la capacità di inserirla all’interno del romanzo come una sorta di colonna sonora. “Nello stereo c’era un disco di John Hiatt, a basso volume. Il pezzo s’intitolava Lift Up Every Stone, «tira su tutti i sassi»: lui non aveva fatto altro, per tutto il tempo che era stato in polizia. Solo che Hiatt voleva costruirci un muro con quei sassi, mentre Rebus si limitava a scrutare il fuggi-fuggi degli esserini scuri che ci trovava sotto”.
Poi abbiamo altri autori: i Tangerine Dream (che l’autore ascoltava mentre scriveva il libro), Randy Newman, Tom Waits e altri ancora.
Siobhan Clarke rimane al fianco dell’investigatore anche in questo caso e si prepara al cambio di consegne (con il pensionamento di Rebus sarà probabile il suo avanzamento al grado di Ispettore). La vicenda ha come sempre una trama molto ben costruita, estremamente complessa, con colpi di scena e un buon finale, forse non ottimo. Cosa che potrebbe far ritornare l’autore sui suoi passi a riprendere il personaggio di John Rebus. Che questo nelle intenzioni di Rankin dovesse essere l’ultimo romanzo della serie è sottolineato anche dal fatto che l’incipit riprende quello del primo romanzo “Cerchi e croci” (ed. or. 1987): come a voler chiudere definitivamente un’epoca.
Il futuro è incerto: il nuovo thriller di Rankin “Doors Open” (2008) è il primo senza Rebus come protagonista da circa dieci anni, ma il fascino dell’ispettore, presumo, potrà sicuramente cambiare i progetti dell’autore, che già nelle ultime interviste si è dimostrato meno certo. Come si è detto si è chiuso un ciclo, più che un’intera serie. Forse. D’altra parte il materiale non manca, infatti Rebus “ormai da un pezzo aveva capito come stavano le cose: non era la malavita che bisognava temere, ma le vite rispettabili”.
lunedì 16 febbraio 2009
La città dei ladri di David Benioff
Leningrado, 1941. Una città devastata, pressochè in rovina, dove le uniche costanti sono giornate passate a sopravvivere e notti scandite da bombe e sirene d'allarme. Una città sotto assedio costante, che resiste testarda ai tedeschi che avanzano pian piano.
Lev è un diciassettenne dal naso grosso, figlio di un poeta ebreo prelevato dalla polizia sovietica. E' un ragazzo forte solo perchè così sembra andare di moda, perchè ad essere uomini bisogna imparare presto.
Con un gruppo di amici "gioca" a fare il soldato, convinto di esserci portato, volendo esserlo. Una notte viene catturato dalla polizia russa dopo essere stato scoperto mentre con gli amici razziava il cadavere di un paracadutista tedesco. In prigione incontra il suo esatto opposto, per colori, idee, temperamento, carattere.
Kolja, nome assolutamente russo, aspetto russo, carattere coraggioso, scanzonato, pose da uomo che sa come vanno fatte certe cose. Accusato di essere un disertore, quando poi scopriremo nel romanzo che la sua defezione dall'esercito era stata causata da motivi molto più "terra terra".
Passano insieme quella che forse sarà la loro ultima notte, perchè la Russia nel 1941 è un brutto posto non solo per gli invasori ma anche per i ladruncoli, i disertori, i poeti anticonformisti, e chiunque la pensi in modo troppo indipendente.
Ed ecco la svolta: il capitano non li uccide, dà invece loro una missione, che potrebbe apparire assolutamente ridicola se non fossimo in un'epoca dove tutto è merce rara.
12 uova. 12 uova per la torta di nozze della figlia. 12 uova, e avranno salva la vita.
Due ragazzi agli antipodi in una ricerca che scivola nel grottesco di palazzi abitati da cannibali, nella tenerezza disperata di bambini che vegliano galline morte, nel calore di momenti rubati su materassi sudici.
Una ricerca che porta fuori Leningrado e oltre le linee naziste, che si scontra con un gruppo di ribelli.
Benioff trova una narrazione precisa, fluida, che si muove tra vari registri, strappando ora un sorriso, ora un sussulto, ora un moto di puro ribrezzo.
Nello scorrere delle pagine c'è posto per la compassione, per l'umanità, ma anche per la grettezza, la solitudine, l'odio vicendevole che in tempo di guerra rende allo stesso tempo tutti lontani e tutti vicini.
Un buon libro, un autore che si scopre bravo nel trasportarci in un'avventura dal sapore agro.
Unica, piccola pecca: l'essersi lasciato andare ad un finale prevedibile; ma la perfezione è merce rara, oggigiorno.
Lev è un diciassettenne dal naso grosso, figlio di un poeta ebreo prelevato dalla polizia sovietica. E' un ragazzo forte solo perchè così sembra andare di moda, perchè ad essere uomini bisogna imparare presto.
Con un gruppo di amici "gioca" a fare il soldato, convinto di esserci portato, volendo esserlo. Una notte viene catturato dalla polizia russa dopo essere stato scoperto mentre con gli amici razziava il cadavere di un paracadutista tedesco. In prigione incontra il suo esatto opposto, per colori, idee, temperamento, carattere.
Kolja, nome assolutamente russo, aspetto russo, carattere coraggioso, scanzonato, pose da uomo che sa come vanno fatte certe cose. Accusato di essere un disertore, quando poi scopriremo nel romanzo che la sua defezione dall'esercito era stata causata da motivi molto più "terra terra".
Passano insieme quella che forse sarà la loro ultima notte, perchè la Russia nel 1941 è un brutto posto non solo per gli invasori ma anche per i ladruncoli, i disertori, i poeti anticonformisti, e chiunque la pensi in modo troppo indipendente.
Ed ecco la svolta: il capitano non li uccide, dà invece loro una missione, che potrebbe apparire assolutamente ridicola se non fossimo in un'epoca dove tutto è merce rara.
12 uova. 12 uova per la torta di nozze della figlia. 12 uova, e avranno salva la vita.
Due ragazzi agli antipodi in una ricerca che scivola nel grottesco di palazzi abitati da cannibali, nella tenerezza disperata di bambini che vegliano galline morte, nel calore di momenti rubati su materassi sudici.
Una ricerca che porta fuori Leningrado e oltre le linee naziste, che si scontra con un gruppo di ribelli.
Benioff trova una narrazione precisa, fluida, che si muove tra vari registri, strappando ora un sorriso, ora un sussulto, ora un moto di puro ribrezzo.
Nello scorrere delle pagine c'è posto per la compassione, per l'umanità, ma anche per la grettezza, la solitudine, l'odio vicendevole che in tempo di guerra rende allo stesso tempo tutti lontani e tutti vicini.
Un buon libro, un autore che si scopre bravo nel trasportarci in un'avventura dal sapore agro.
Unica, piccola pecca: l'essersi lasciato andare ad un finale prevedibile; ma la perfezione è merce rara, oggigiorno.
Knockemstiff di Donald Ray Pollock
Knock-out a Knockemstiff.
L’autore è arrivato alla scrittura tardi. E’ nato nel 1954 e questo libro è il suo esordio (sebbene molti racconti siano apparsi su varie riviste). “Knockemstiff”, altrimenti nota come il Buco, è il luogo dove il narrare prende forma. La cartina che apre il libro indica i contorni e i punti principali attraverso i quali Daniel Ray Pollock si muove con i movimenti di un pugile. Ora leggero, o con la guardia ben sollevata, ora fuori tempo oppure steso a terra.
Non è un ambiente rurale placido e sorridente, l’Ohio del Sud di Knockemstiff suona più come una condanna a vita, una vita di lattine di birra, di lattine di maiale e fagioli, di rimasugli di carne, di sangue rappreso, di alcol e anfetamine e ancora di lattine, quello che non manca sono le scatole in latta. L’abilità di Pollock è che, come pugile-narratore, riesce, e spesso, a piazzare quel colpo inaspettato, oppure atteso, ma perfetto, in grado di mandare il lettore knock-out.
Il Buco appare in tutti i racconti come un centro gravitazionale che lega i personaggi: questi non riescono a spostarsi che di pochi chilometri. Un ragazzo in fuga finisce in un vecchio trailer non troppo distante da casa. L’autore stesso si è allontanato, da Knockenstiff dove è nato, di qualche decina di miglia appena: ora abita a Chillicothe. Il bello è che quasi tutti nei suoi racconti sembrano voler fuggire, il problema è che in qualche modo, rimangono legati a questo luogo, una sorta di specchio dell’anima. La fuga vera è da se stessi, e quella è un’impresa troppo ardua da compiere.
Esiste un tempo dell’innocenza, ma per alcuni è davvero molto breve: Bobby che sente il sapore del sangue della sua prima rissa (in cui è stato trascinato dal padre) oppure i due fratelli sorpresi in una strana adorazione di Dio al Dynamite Hole (e al cospetto di Dio giungeranno prima del previsto probabilmente). Pollock racconta di un luogo, ne segue con attenzione i contorni, le strade polverose, le roulotte abbandonate. I suoi personaggi nascono da questo luogo, uno schiaffo sulla terra nel Sud dell’Ohio, oppure un pugno, scagliato non si sa bene da chi, quello che è certo è che chi è trovato su quel lembo di terra non se l’è passata proprio allegramente. I racconti di Daniel Ray Pollock sono un omaggio offerto agli avanzi di quel luogo, fuori dalle mappe, ma pur sempre vitali e profondamente umani, un luogo chiamato Knockemstiff.
Donald Ray Pollock, “Knockemstiff”, (ed. or. 2008), pp.216, 16 euro, Elliot, 2009.
L’autore è arrivato alla scrittura tardi. E’ nato nel 1954 e questo libro è il suo esordio (sebbene molti racconti siano apparsi su varie riviste). “Knockemstiff”, altrimenti nota come il Buco, è il luogo dove il narrare prende forma. La cartina che apre il libro indica i contorni e i punti principali attraverso i quali Daniel Ray Pollock si muove con i movimenti di un pugile. Ora leggero, o con la guardia ben sollevata, ora fuori tempo oppure steso a terra.
Non è un ambiente rurale placido e sorridente, l’Ohio del Sud di Knockemstiff suona più come una condanna a vita, una vita di lattine di birra, di lattine di maiale e fagioli, di rimasugli di carne, di sangue rappreso, di alcol e anfetamine e ancora di lattine, quello che non manca sono le scatole in latta. L’abilità di Pollock è che, come pugile-narratore, riesce, e spesso, a piazzare quel colpo inaspettato, oppure atteso, ma perfetto, in grado di mandare il lettore knock-out.
Il Buco appare in tutti i racconti come un centro gravitazionale che lega i personaggi: questi non riescono a spostarsi che di pochi chilometri. Un ragazzo in fuga finisce in un vecchio trailer non troppo distante da casa. L’autore stesso si è allontanato, da Knockenstiff dove è nato, di qualche decina di miglia appena: ora abita a Chillicothe. Il bello è che quasi tutti nei suoi racconti sembrano voler fuggire, il problema è che in qualche modo, rimangono legati a questo luogo, una sorta di specchio dell’anima. La fuga vera è da se stessi, e quella è un’impresa troppo ardua da compiere.
Esiste un tempo dell’innocenza, ma per alcuni è davvero molto breve: Bobby che sente il sapore del sangue della sua prima rissa (in cui è stato trascinato dal padre) oppure i due fratelli sorpresi in una strana adorazione di Dio al Dynamite Hole (e al cospetto di Dio giungeranno prima del previsto probabilmente). Pollock racconta di un luogo, ne segue con attenzione i contorni, le strade polverose, le roulotte abbandonate. I suoi personaggi nascono da questo luogo, uno schiaffo sulla terra nel Sud dell’Ohio, oppure un pugno, scagliato non si sa bene da chi, quello che è certo è che chi è trovato su quel lembo di terra non se l’è passata proprio allegramente. I racconti di Daniel Ray Pollock sono un omaggio offerto agli avanzi di quel luogo, fuori dalle mappe, ma pur sempre vitali e profondamente umani, un luogo chiamato Knockemstiff.
Donald Ray Pollock, “Knockemstiff”, (ed. or. 2008), pp.216, 16 euro, Elliot, 2009.
domenica 8 febbraio 2009
The Phantom Band e Glasvegas
The Phantom Band è un gruppo che probabilmente si sentirà nominare spesso. In futuro.
Disco registrato a Glasgow e pubblicato da un’etichetta locale, il loro Checkmate Savage unisce la musica pop alla melodia ipnotica del krautrock. Avvicinabile in alcuni punti alla produzione degli Stereolab, la musica dei The Phantom Band acquista spessore ad ogni ascolto. L’inizio con The Howling è fenomenale, il disco prende una pausa con Crocodile e si rilancia nella seconda metà con canzoni come Left Hand Wave. Musica ipnotica si è detto, ma insieme sostenuta da variazioni, sottotracce e melodie che tengono viva l’attenzione. Esclusa Islands, il pezzo meno riuscito, Checkmate Savage è un album eccellente.
Ormai lanciati da NME e da quasi tutte le maggiori riviste del settore, sempre da Glasgow arrivano, con l’album omonimo, i Glasvegas: stupenda la canzone Geraldine che continua nel melodramma di It's My Own Cheating Heart That Makes Me Cry. Musica emozionale che parla più al cuore che al cervello (ma era anche ora), l’album contiene perle come Daddy’s Gone: uscita già come singolo, la canzone sarà sicuramente uno dei pezzi forti dei concerti. La melodia pop è nobilitata da uno stile che, pur rifacendosi agli Smiths, si mantiene su una linea originale con il suono della chitarra elettrica che arriva all’improvviso come un getto d’acqua bollente a cambiare timbro e sensazioni. Grande album. Sicuramente da avere.
Disco registrato a Glasgow e pubblicato da un’etichetta locale, il loro Checkmate Savage unisce la musica pop alla melodia ipnotica del krautrock. Avvicinabile in alcuni punti alla produzione degli Stereolab, la musica dei The Phantom Band acquista spessore ad ogni ascolto. L’inizio con The Howling è fenomenale, il disco prende una pausa con Crocodile e si rilancia nella seconda metà con canzoni come Left Hand Wave. Musica ipnotica si è detto, ma insieme sostenuta da variazioni, sottotracce e melodie che tengono viva l’attenzione. Esclusa Islands, il pezzo meno riuscito, Checkmate Savage è un album eccellente.
Ormai lanciati da NME e da quasi tutte le maggiori riviste del settore, sempre da Glasgow arrivano, con l’album omonimo, i Glasvegas: stupenda la canzone Geraldine che continua nel melodramma di It's My Own Cheating Heart That Makes Me Cry. Musica emozionale che parla più al cuore che al cervello (ma era anche ora), l’album contiene perle come Daddy’s Gone: uscita già come singolo, la canzone sarà sicuramente uno dei pezzi forti dei concerti. La melodia pop è nobilitata da uno stile che, pur rifacendosi agli Smiths, si mantiene su una linea originale con il suono della chitarra elettrica che arriva all’improvviso come un getto d’acqua bollente a cambiare timbro e sensazioni. Grande album. Sicuramente da avere.
giovedì 5 febbraio 2009
Il suggeritore di Donato Carrisi
Global thriller.
Preparato attraverso studi di criminologia, medicina legale e un apprendistato come sceneggiatore di alcune serie televisive, “Il suggeritore” raccoglie il frutto di un lavoro molto approfondito: è un thriller di altissimo livello. Carrisi attraverso l’uso di nomi stranieri dal suono, ora francese, ora gitano, ora slavo e con un’ambientazione non chiara, delocalizza il racconto e lo prepara per le imminenti traduzioni all’estero. Certo se fosse ambientato nella provincia di Arezzo, Carrisi non avrebbe potuto mettere in campo tecniche investigative mutuate da Quantico e l’affresco di personaggi e azioni sarebbe, per motivi geografici, risultato più ristretto, per non usare la parola provinciale.
Non manca nulla al racconto degli omicidi seriali: colpi scena, personaggi delineati con grande cura e soprattutto un ritmo sempre alto (probabile ricordo del lavoro come sceneggiatore, più che frutto di un manuale universitario).
“Stiamo accanto a persone di cui pensiamo di conoscere tutto, e invece non sappiamo niente di loro…”. Partendo da spunti reali o situazioni oggettivamente comuni, l’autore ha l’abilità di imbastire un racconto quasi barocco dal punto di vista delle invenzioni narrative.
La trama de “Il suggeritore” offre spunti nuovi a un genere che ha visto negli ultimi anni pochi elementi di novità. Carrisi riesce a muovere i suoi personaggi in direzioni diverse, a creare aspettativa e ad amplificare l’effetto dei colpi di scena attraverso l’uso di un linguaggio mai banale. La scrittura è curata quanto la trama e mantiene nel lettore il senso puro della vicenda: un racconto, un thriller in cui ci si continua a chiedere cosa accadrà. Sebbene l’autore ricordi, tristemente, che alcune vicende traggono spunto da eventi reali, come lettori non dobbiamo dimenticare che quello che abbiamo di fronte è un romanzo. Una finzione per eccellenza. Il progetto di una storia così ricca di personaggi e storie che si incastrano in un mosaico sempre più vasto prende la forma di uno dei migliori thriller degli ultimi anni.
Preparato attraverso studi di criminologia, medicina legale e un apprendistato come sceneggiatore di alcune serie televisive, “Il suggeritore” raccoglie il frutto di un lavoro molto approfondito: è un thriller di altissimo livello. Carrisi attraverso l’uso di nomi stranieri dal suono, ora francese, ora gitano, ora slavo e con un’ambientazione non chiara, delocalizza il racconto e lo prepara per le imminenti traduzioni all’estero. Certo se fosse ambientato nella provincia di Arezzo, Carrisi non avrebbe potuto mettere in campo tecniche investigative mutuate da Quantico e l’affresco di personaggi e azioni sarebbe, per motivi geografici, risultato più ristretto, per non usare la parola provinciale.
Non manca nulla al racconto degli omicidi seriali: colpi scena, personaggi delineati con grande cura e soprattutto un ritmo sempre alto (probabile ricordo del lavoro come sceneggiatore, più che frutto di un manuale universitario).
“Stiamo accanto a persone di cui pensiamo di conoscere tutto, e invece non sappiamo niente di loro…”. Partendo da spunti reali o situazioni oggettivamente comuni, l’autore ha l’abilità di imbastire un racconto quasi barocco dal punto di vista delle invenzioni narrative.
La trama de “Il suggeritore” offre spunti nuovi a un genere che ha visto negli ultimi anni pochi elementi di novità. Carrisi riesce a muovere i suoi personaggi in direzioni diverse, a creare aspettativa e ad amplificare l’effetto dei colpi di scena attraverso l’uso di un linguaggio mai banale. La scrittura è curata quanto la trama e mantiene nel lettore il senso puro della vicenda: un racconto, un thriller in cui ci si continua a chiedere cosa accadrà. Sebbene l’autore ricordi, tristemente, che alcune vicende traggono spunto da eventi reali, come lettori non dobbiamo dimenticare che quello che abbiamo di fronte è un romanzo. Una finzione per eccellenza. Il progetto di una storia così ricca di personaggi e storie che si incastrano in un mosaico sempre più vasto prende la forma di uno dei migliori thriller degli ultimi anni.
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