Dorothy Hewett, scrittrice australiana, offre in questa raccolta di racconti una splendida prova di scrittura. E' il lavoro di una vita. I racconti coprono un arco temporale di quarant'anni e si muovono tra stili e registri molto differenti tra loro.
Di volta in volta, scopriamo personaggi in apparenza diversi e distanti: un bambino che cerca di dipanare la matassa ingarbugliata degli eventi che sconvolgono la sua piccola vita, un raccoglitore di fragole che cerca lavoro con la sua giovane moglie aborigena, una donna di mezza età che vaga tra stanze e ricordi, una coppia in luna di miele, due sorelle misteriose, e ancora molti altri.
Quello che li accomuna - al di là della loro età e del luogo in cui si trovano - , è la forte empatia che riescono a trasmettere, e - soprattutto - l'enorme fusione con l'ambiente che li circonda.
Nelle parole della Hewett, le persone si fondono col paesaggio, creando immagini memorabili. I corpi ricordano le forme della terra, i movimenti umani ricalcano quelli animali, le forme degli alberi si sovrappongono a quelle di gambe, braccia, movimenti fluidi che paiono generarsi dal terreno per fissarsi sulle persone.
"Poi li vidi, i figli dei manovali con Irene McKenna in testa, correre a piedi nudi sull'erba verso la boscaglia, saltare tra gli alberelli di eucalipto, scuri e lucidi come lei".
Australia, in tutte le sue mille sfumature, è una presenza viva, qui, un elemento preponderante.
"Socchiusi gli occhi per via della luce accecante e gli sembrò che in quel momento il ragazzino fosse lì, con un piede nudo sulla roccia piatta e le briglie a penzoloni, lo sguardo perso oltre i pascoli dove la foresta azzurra segnava i confini, il bestiame che si muoveva e si agitava sotto gli eucalipti, sua madre in piedi nel cortile con i bidoni della panna, che si riparava gli occhi e gridava il suo richiamo dalla piana".
Lo stile poi denota un'intelligenza acuta, capace di destreggiarsi senza difficoltà tra i vari generi. Si passa da un registro semplice, immediato, denso dell'emozione istintiva che può contraddistinguire un bambino di tre anni, ad uno stile che mescola biografia, articoli di giornale, frammenti di poesia, estratti di diari.
C'è spazio per la riflessione politica (la Hewett ha fatto parte a lungo del Partito Comunista australiano), attraverso le accorate parole di giovani pieni di speranze, così come per l'emozione di un incontro.
Il mio racconto preferito rimane senz'altro "Le barriere di Jarrabin", un piccolo grande gioiello che in poche pagine riesce a raccontarci la magia e la crudeltà dell'infanzia, la difficile vita degli aborigeni, le scelte degli adulti vissute come imposizioni, cambi di rotta ai quali mestamente ci si rassegna.
"A volte, quando una delle donne ci rivolgeva la parola, correvamo via verso il buio e lì restavamo, prima su un piede e poi sull'altro, come timidi animali selvatici, mentre i nostri vestiti chiari brillavano nella penombra"
In generale, questa raccolta di racconti è ricca di emozioni, immagini che restano impresse a lungo e offrono un ampio panorama sull'essere australiani.
Al termine del libro, un'interessante postfazione della Hewett ci offre squarci di luce sull'origine dei testi; la scrittrice ricorda cosa li ha evocati, il perchè di una particolare scelta, la motivazione nello scrivere racconti, che spesso si rivela più arduo che scrivere un romanzo. Il finale perfetto, ça va sans dire. (Chiara Biondini).
martedì 26 gennaio 2010
sabato 16 gennaio 2010
Come mi batte forte il tuo cuore di Benedetta Tobagi
Benedetta aveva 3 anni quando uccisero suo padre Walter. Lui, di anni, ne aveva 33. Dalla sua morte, il 28 marzo 1980, sono passati quasi 30 anni.
Walter Tobagi era un giornalista, uno scrittore, era anche Presidente dell’Associazione Giornalisti della Lombardia; scriveva per il “Corriere della Sera”, si occupava di politica, di sindacati, di terrorismo. Era un appassionato storico, gli interessava soprattutto la storia dei sindacati, la loro nascita, la loro evoluzione.
Lo uccise un commando della “Brigata XXVIII Marzo”, costola semi-sconosciuta delle ben più famose BR.
Raccontare la sua storia significa raccontare quegli anni che tutti conosciamo sotto la definizione “anni di piombo”. Anni in cui giovani sotto i 30 anni si sono sentiti in diritto di mettere a ferro e fuoco un paese che non rispondeva ai loro ideali.
Benedetta sente forte la mancanza di un padre, ancora di più di un padre come il suo, che a 33 anni ha già una brillante carriera, conosce personaggi in vista (da Moro a Craxi, che benedetta ricorda come un omone spaventoso, tanto che lo osservava di nascosto), è apprezzato ed amato nell’ambiente giornalistico, come in quello politico.
“Alle medie scoprii che nelle cellule vegetali ci sono organuli simili a bolle d’aria, i vacuoli, attorno ai quali si organizza il resto della struttura. Mentre ricopiavo diligentemente il disegno dal libro di scienze sul mio quadernone pensavo, desolata: sono io. Abbarbicata attorno a dei vuoti in cui cerco disperatamente di non cadere”.
L’assenza, il più delle volte, è ossessiva, pesante, come un mantello che condiziona passi, scelte. Ci si chiede sempre: e se? E se fosse vissuto? E se mi avesse vista crescere? E altre domande ancora. La risposta di Benedetta è cercare. Ripercorrere la storia di un padre attraverso le sue carte, i suoi articoli, i suoi ricordi, le sue registrazioni, gli atti del processo.
Un sentiero fatto di carta che condurrà – forse – ad una serenità nuova.
I ricordi intimi, le figure dei nonni, l’infanzia e l’adolescenza di Walter si mescolano alla ricerca storica, al lavoro certosino in archivi impolverati, in redazioni deserte.
I colloqui con gli amici giornalisti, le lettere giovanili, i diari: esperienza, memoria, lavoro, ricordo e inchiesta si mescolano e si inseguono tra i capitoli.
Perché Benedetta, per capire e conoscere suo padre, deve poterne cogliere tutti gli aspetti.
Il libro corre veloce, senza piagnistei o pedanteria.
I libri di memorie non sono tra i miei favoriti; purtroppo si rischia di cadere nella pantomima del martirio, nel circo dell’eroe caduto. Non vuole essere mancanza di rispetto, la mia, ma semplice constatazione: spesso queste morti vengono strumentalizzate per un cordoglio che di autentico ha poco, si smarriscono dentro facili vittimismi.
Questo libro è invece ben scritto. E’ Benedetta stessa a precisare:
“Sono allergica alla retorica vuota del martire e dell'eroe, che troppo spesso si applica alle vittime del terrorismo. Papà ha avuto paura, ha faticato, ha assunto posizioni impopolari e molto discusse, ha continuato a scrivere le cose che gli sembravano giuste, ha cercato di riempire ogni giorno di senso il suo ideale di democrazia: questo, non il "martirio", fa di lui un punto di riferimento”.
Questa sua consapevolezza si evince chiaramente dal suo lucido modo di scrivere, di raccontare, di analizzare.
La morte di Walter Tobagi scosse molte coscienze, e ha ancora molti punti oscuri. Il processo ha condannato gli assassini, fra tutti il reo confesso Marco Barbone, ma non ha in realtà chiarito chi fossero i mandanti.
Ulderico, il sanguigno padre di Walter, avvisò Benedetta, le disse: “Attenta a non farti male”. E che cos’è che può fare più male della morte di un genitore? Forse, scoprire che giustizia non è stata fatta. Che – forse – qualcuno sapeva e non ha detto, “avrebbe potuto” ma si è voltato dall’altra parte. Benedetta non accusa, semplicemente riporta i fatti così come le si sono parati davanti agli occhi, con semplicità e grande obiettività.
Crescere, diventare sé stessi nell’ombra e nella scia di un evento drammatico come questo non è semplice, e la Tobagi crea, con questo libro, un universo nel quale muoversi, un punto di partenza e una destinazione, un micro-cosmo nel quale far gravitare storia, cronaca, ricordo, amore. (Chiara Biondini).
Walter Tobagi era un giornalista, uno scrittore, era anche Presidente dell’Associazione Giornalisti della Lombardia; scriveva per il “Corriere della Sera”, si occupava di politica, di sindacati, di terrorismo. Era un appassionato storico, gli interessava soprattutto la storia dei sindacati, la loro nascita, la loro evoluzione.
Lo uccise un commando della “Brigata XXVIII Marzo”, costola semi-sconosciuta delle ben più famose BR.
Raccontare la sua storia significa raccontare quegli anni che tutti conosciamo sotto la definizione “anni di piombo”. Anni in cui giovani sotto i 30 anni si sono sentiti in diritto di mettere a ferro e fuoco un paese che non rispondeva ai loro ideali.
Benedetta sente forte la mancanza di un padre, ancora di più di un padre come il suo, che a 33 anni ha già una brillante carriera, conosce personaggi in vista (da Moro a Craxi, che benedetta ricorda come un omone spaventoso, tanto che lo osservava di nascosto), è apprezzato ed amato nell’ambiente giornalistico, come in quello politico.
“Alle medie scoprii che nelle cellule vegetali ci sono organuli simili a bolle d’aria, i vacuoli, attorno ai quali si organizza il resto della struttura. Mentre ricopiavo diligentemente il disegno dal libro di scienze sul mio quadernone pensavo, desolata: sono io. Abbarbicata attorno a dei vuoti in cui cerco disperatamente di non cadere”.
L’assenza, il più delle volte, è ossessiva, pesante, come un mantello che condiziona passi, scelte. Ci si chiede sempre: e se? E se fosse vissuto? E se mi avesse vista crescere? E altre domande ancora. La risposta di Benedetta è cercare. Ripercorrere la storia di un padre attraverso le sue carte, i suoi articoli, i suoi ricordi, le sue registrazioni, gli atti del processo.
Un sentiero fatto di carta che condurrà – forse – ad una serenità nuova.
I ricordi intimi, le figure dei nonni, l’infanzia e l’adolescenza di Walter si mescolano alla ricerca storica, al lavoro certosino in archivi impolverati, in redazioni deserte.
I colloqui con gli amici giornalisti, le lettere giovanili, i diari: esperienza, memoria, lavoro, ricordo e inchiesta si mescolano e si inseguono tra i capitoli.
Perché Benedetta, per capire e conoscere suo padre, deve poterne cogliere tutti gli aspetti.
Il libro corre veloce, senza piagnistei o pedanteria.
I libri di memorie non sono tra i miei favoriti; purtroppo si rischia di cadere nella pantomima del martirio, nel circo dell’eroe caduto. Non vuole essere mancanza di rispetto, la mia, ma semplice constatazione: spesso queste morti vengono strumentalizzate per un cordoglio che di autentico ha poco, si smarriscono dentro facili vittimismi.
Questo libro è invece ben scritto. E’ Benedetta stessa a precisare:
“Sono allergica alla retorica vuota del martire e dell'eroe, che troppo spesso si applica alle vittime del terrorismo. Papà ha avuto paura, ha faticato, ha assunto posizioni impopolari e molto discusse, ha continuato a scrivere le cose che gli sembravano giuste, ha cercato di riempire ogni giorno di senso il suo ideale di democrazia: questo, non il "martirio", fa di lui un punto di riferimento”.
Questa sua consapevolezza si evince chiaramente dal suo lucido modo di scrivere, di raccontare, di analizzare.
La morte di Walter Tobagi scosse molte coscienze, e ha ancora molti punti oscuri. Il processo ha condannato gli assassini, fra tutti il reo confesso Marco Barbone, ma non ha in realtà chiarito chi fossero i mandanti.
Ulderico, il sanguigno padre di Walter, avvisò Benedetta, le disse: “Attenta a non farti male”. E che cos’è che può fare più male della morte di un genitore? Forse, scoprire che giustizia non è stata fatta. Che – forse – qualcuno sapeva e non ha detto, “avrebbe potuto” ma si è voltato dall’altra parte. Benedetta non accusa, semplicemente riporta i fatti così come le si sono parati davanti agli occhi, con semplicità e grande obiettività.
Crescere, diventare sé stessi nell’ombra e nella scia di un evento drammatico come questo non è semplice, e la Tobagi crea, con questo libro, un universo nel quale muoversi, un punto di partenza e una destinazione, un micro-cosmo nel quale far gravitare storia, cronaca, ricordo, amore. (Chiara Biondini).
sabato 9 gennaio 2010
“Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi)” di Nicola Lagioia.
Portami il girasole impazzito di luce. E un caffè macchiato, grazie.
E’ un libro da consultazione. Certo prima bisogna leggerlo almeno una volta. Però poi sta bene lì sul comodino, vicino a “Orientarsi con le stelle” di Carver. Ehi, l’editore è lo stesso. Strano? Non tanto.
E’ un livre de chevet, certo, che si può comodamente tenere vicino alla scatoletta con due tipi diversi di benzodiazepine e una imidazopiridina, niente di illegale, magari anche del salbutamolo per riempirsi i polmoni di aria grigia. Questo romanzo - o non romanzo - libro - oggetto, mettiamoci pure a cavillare, a volte (anzi spesso), si apre in vortici di luce:
“[…] diventa chiaro che per sfuggire a ricadute disastrose è necessaria una partenza. Tra Lazio e Umbria le stagioni, si soffermano su una muta, radiosa declinazione di morte. Si aprono alla vista campi di girasole di una bellezza devastante. Enormi distese di oro e di verde salgono al vertice della propria intensità al solo scopo di crollare tanto più rovinosamente nel cuore piatto dell’inverno. Partii che potevano essere le cinque del mattino. Ci fu quest’alba in autostrada. Questa luce su cose morenti. Queste ali spiegate di corvi che annunciano il giorno”.
In fondo il libro di Nicola Lagioia, che si legge comodamente in novanta minuti, senza supplementari e saltando l’intervallo (a meno che non siate incontinenti), il libro è una serie di finte partenze per afferrare quella giusta. Una serie di scatti brucianti da centometrista. Ancora e ancora. E non ne avrete mai abbastanza.
Mescolare ricordi, citazioni, storie immaginarie, i cliché, la vita, la dama cinese, la cucina, che nei romanzi è quasi sempre luogo di accumulo di piatti sporchi, la letteratura (ovvio c’è "Guerra e pace"), la filosofia, Love & Death, ma senza nominarlo, e ancora la droga, laccio emostatico compreso (ora costa un euro), il nembutal, che, invece, praticamente non si vende più, e spararsi tutta questa tirata di parole, rimangiando ogni cosa di sé stessi, ogni sbaglio, sconfitta o vittoria, tutto, come in una partita di dama cinese, appunto: questo è il romanzo, in parte. Perché è la danza di sottrazioni che affascina Lagioia e il lettore (o alcuni lettori); questa gara ad eliminazione, anno dopo anno, in corsa verso il nulla e in mezzo… In mezzo quello che vi pare.
“Mi avete realmente creduto?”.
Più o meno è così che vedo questo romanzo. Disclaimer: ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti (anche a Lagioia ecc.) è puramente casuale. La lunghezza della recensione è proporzionale a quella del libro e al fatto che voglio prendere il tè guardando una puntata de “I pinguini di Madagascar”.
E’ un libro da consultazione. Certo prima bisogna leggerlo almeno una volta. Però poi sta bene lì sul comodino, vicino a “Orientarsi con le stelle” di Carver. Ehi, l’editore è lo stesso. Strano? Non tanto.
E’ un livre de chevet, certo, che si può comodamente tenere vicino alla scatoletta con due tipi diversi di benzodiazepine e una imidazopiridina, niente di illegale, magari anche del salbutamolo per riempirsi i polmoni di aria grigia. Questo romanzo - o non romanzo - libro - oggetto, mettiamoci pure a cavillare, a volte (anzi spesso), si apre in vortici di luce:
“[…] diventa chiaro che per sfuggire a ricadute disastrose è necessaria una partenza. Tra Lazio e Umbria le stagioni, si soffermano su una muta, radiosa declinazione di morte. Si aprono alla vista campi di girasole di una bellezza devastante. Enormi distese di oro e di verde salgono al vertice della propria intensità al solo scopo di crollare tanto più rovinosamente nel cuore piatto dell’inverno. Partii che potevano essere le cinque del mattino. Ci fu quest’alba in autostrada. Questa luce su cose morenti. Queste ali spiegate di corvi che annunciano il giorno”.
In fondo il libro di Nicola Lagioia, che si legge comodamente in novanta minuti, senza supplementari e saltando l’intervallo (a meno che non siate incontinenti), il libro è una serie di finte partenze per afferrare quella giusta. Una serie di scatti brucianti da centometrista. Ancora e ancora. E non ne avrete mai abbastanza.
Mescolare ricordi, citazioni, storie immaginarie, i cliché, la vita, la dama cinese, la cucina, che nei romanzi è quasi sempre luogo di accumulo di piatti sporchi, la letteratura (ovvio c’è "Guerra e pace"), la filosofia, Love & Death, ma senza nominarlo, e ancora la droga, laccio emostatico compreso (ora costa un euro), il nembutal, che, invece, praticamente non si vende più, e spararsi tutta questa tirata di parole, rimangiando ogni cosa di sé stessi, ogni sbaglio, sconfitta o vittoria, tutto, come in una partita di dama cinese, appunto: questo è il romanzo, in parte. Perché è la danza di sottrazioni che affascina Lagioia e il lettore (o alcuni lettori); questa gara ad eliminazione, anno dopo anno, in corsa verso il nulla e in mezzo… In mezzo quello che vi pare.
“Mi avete realmente creduto?”.
Più o meno è così che vedo questo romanzo. Disclaimer: ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti (anche a Lagioia ecc.) è puramente casuale. La lunghezza della recensione è proporzionale a quella del libro e al fatto che voglio prendere il tè guardando una puntata de “I pinguini di Madagascar”.
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