lunedì 15 giugno 2009

L'infinito istante, di Geoff Dyer

L’infinito istante” si presenta bene fin dal titolo. Quale immagine più efficace per descrivere quello che è la fotografia? Un qualcosa di statico e dinamico, di presente ed eterno, un contenitore di vita, di storie, che rappresenta non solo ciò che viene catturato dall’obiettivo ma anche – e soprattutto – chi c’è dietro l’obiettivo.

Il saggio di Dyer conserva le caratteristiche del dinamismo; si sposta tra epoche, fotografi, immagini, stili. Ci sono elementi che creano un percorso, una via. Ci sono fotografi che catturano oggetti comuni – come un cappello o una panchina – e così facendo li fanno diventare simboli. Di un’epoca, di un dato momento storico. Di molti momenti, perché i fotografi si rincorrono attraverso gli anni, ed ecco che la panchina fotografata da Evans ricompare in una foto di Strand, ed è chiaro che non è la stessa (sono passati gli anni e sono diversi i luoghi), eppure lo è, perché il soggetto ritorna, si ricompone, riecheggia e ricorda. “Una sedia si può adattare all’ambiente in cui è inserita; una panchina resiste alla bufera, prende qualsiasi cosa la vita le abbia destinato. La sua visione del mondo è fissata, determinata, ostinatamente opposta al cambiamento, eppure impotente a resistergli. Si ha spesso la sensazione che le panchine siano spettatori che osservano scorrere il traffico umano.”

Il libro non è strutturato in veri e propri capitoli; piuttosto, ogni nuovo argomento è anticipato da una piccola citazione. Ed ecco che – prepotentemente – la letteratura si mescola alla fotografia. I poeti parlano delle immagini nei loro versi, sembrano descriverle, gli scrittori trovano ispirazione negli scatti degli artisti, si trovano a parlarne; a loro volta i fotografi leggono Wordsworth, Blake, ma anche Carver e Cheever, e scoprono nuovi modi per fotografare, nuove immagini da cercare, da creare. “Cheever commenta più volte la “qualità morale della luce” e la staccionata di Ormerod – rotta, bianca e brillante, mentre proietta solo ombre leggere – ne è proprio una prova. Nel mondo di Cheever i matrimoni vanno male, continuano, persistono, anche in seguito, quando sembrano crollare. scrisse Cheever nel 1958.”

La scrittura di Dyer è corposa, densa, le informazioni sono molte, si susseguono riga per riga. Si parte da un’immagine e via via si trovano collegamenti, espansioni, nuove forme e modi di vedere. Dyer riesce a farti notare quei piccoli dettagli che sembrano a prima vista insignificanti, ma che – spesso – sono quanto di più essenziale contenga la fotografia.

Prendiamo – ad esempio – “New York”, di Winogrand, 1968. Il cieco è certamente il soggetto dello scatto, ma altrettanto importante diventa la donna dall’aria “hippy” che sta facendo cadere una moneta dentro la tazza, così come la donna ben vestita dall’aria sera che sembra volersene scappare, nell’indifferenza più totale. Creano un micro-cosmo, un mondo che si è fermato in quel preciso momento per permettere a noi di osservarlo. Un altro fotografo si sarebbe concentrato su altri dettagli, fornendo un quadro completamente diverso, ma questo, queste persone, in questo modo, è ciò che Winogrand voleva che vedessimo. Ecco apparire l’infinito istante.

Non ci sono tecnicismi. Non aspettatevi di trovare dissertazioni su aperture del diaframma, ed esposizione, e scala di grigi. Dyer non è un fotografo, non è un tecnico, e non gli interessa soffermarsi su ciò che di meccanico la fotografia ha da offrire. Dyer è un amante appassionato, che dà voce alla sua passione cantandone i maestri. Per questo la lettura diventa un piacere, una sorta di lunga conversazione su quanto possano comunicare certe immagini, certi dettagli. Non c’è una successione temporale; si parla di foto scattate alla fine dell’ottocento per poi trovarsi, qualche riga dopo, nei tardi anni ottanta. Perché la fotografia è questo. Ferma il tempo, e allo stesso modo lo diluisce. “Le persone vengono fotografate, muoiono. Poi ritornano e vengono fotografate di nuovo, da qualcun altro. E’ una sorta di reincarnazione. […] In fotografia non esiste un . C’era solo quell’istante e adesso c’è quest’altro istante e nel mezzo non c’è niente. La fotografia, in un certo senso, è la negazione della cronologia”.

Il fratello di Kertész viene fotografato in un parco a Budapest, nel 1913, seduto su una panchina, così come l’uomo che Brassai fotograferà sulla Riviera nel 1936 e il gruppo multirazziale e fremente che fotograferà Winogrand a New York nel 1964. Panchine. Che diventano un filo comune, un’eco, un ciclo.

Le immagini sono anche uno strumento indispensabile per raccontare la storia. Lo scatto di Dorotea Lange della madre emigrante è diventato un’icona. Il simbolo umano della Grande Depressione. Ha travalicato l’istante in cui si è fissato sulla carta ed è diventato qualcosa di eterno, immutabile, un qualcosa che – anche solo intravisto – ci riporterà alla mente anni interi di storia. Non è incredibile pensare come tutta un’epoca possa condensarsi nei volti di queste persone?

I temi sono molti. Si parla di ciechi, soggetto bramato da molti fotografi, per il loro essere così distanti dal tutto pur essendovi immersi. Ma anche di mani, e staccionate, schiene, e cappelli. Scale, e letti. Finestre e colore. Ritratti, ed erotismo. Porte, interni, esterni. Foto scattate dalla finestra di casa, foto scattate attraverso il cruscotto di un’auto.

Il saggio si conclude con “quella parte spaventosa che c’è in ogni fotografia”: la guerra, il sangue, la morte, e dopo la morte? Chissà.

Il saggio di Dyer è un lungo viaggio, una lunga esplorazione, mette la voglia di approfondire, di cercare, di conoscere. Una volta chiuso il libro, la mente è piena non soltanto di fotografie, ma anche e soprattutto di coloro che vi sono raffigurati, e – potenti – coloro che hanno scelto di fare quelle fotografie, fermando il tempo, cristallizzando un frammento di storia, regalandoci infinite serie di infiniti istanti.


“E pensare che c’è stato un tempo, più di cento anni fa, in cui quel momento era adesso! E quella figura avvolta nel mantello, pure quella figura deve aver avuto il sospetto di un che diventa . Quando ha attraversato la strada e ha oltrepassato l’uomo con la macchina fotografica, di sicuro deve essersi voltato indietro per vedere cosa sarebbe stata la foto, solo per scoprire che l’unica cosa – lui stesso – a definirla come un’immagine, un istante, non era più lì. In pochi secondi è arrivato ed è andato via, rimangono solo le sue impronte; è il suo destino speciale – o così sostiene la fotografia – non arrivare mai a quel punto privilegiato in cui ci si volta e si guarda all’indietro, ma essere invece rappresentato, in un istante e per sempre, paziente come il cavallo che aspetta e come gli edifici che sono ancora lì.”

1 commento:

jeff ha detto...

Bellissima e utilissima recensione. L'ho visto stasera in libreria e credo che prima o poi lo comprerò.