martedì 4 gennaio 2011

Una vita come le altre di Alan Bennett

Alan Bennet ha una vita lunga, alle spalle. E’ nato nel 1934, quindi – anche se me lo immagino come un eterno ragazzino – siamo di fronte ad un uomo fatto. Un uomo che, per la prima volta, si misura in tutto e per tutto con sé stesso.
Le sue piece e i suoi romanzi sono ricolmi di aneddoti, situazioni ed equivoci che Bennet ha “prelevato” dalla sua variegata esperienza personale, ma qui siamo su un piano diverso. Qui la vita non è ispirazione, è materia narrativa.
Mi sono chiesta, leggendo: ma a me tutto questo interessa? Se non fosse la vita di uno scrittore che mi ha fatto sorridere e riflettere, mi interesserebbe davvero? E la risposta è: sì. Perché Bennet è uno straordinario narratore, e la passione, l’intelligenza, e soprattutto l’onestà che contraddistingue i suoi scritti, qui raggiungono livelli altissimi.
La sua famiglia, così ordinariamente normale, così tragicamente normale, giunge a noi vera, vivida, pulsante.
La madre, malata di depressione, schiacciata da due sorelle che amano il bel vivere e sono sfrontate e sorridenti, il padre, onesto e buono, timido, come la moglie, restio al sorriso eppure di una tenerezza e di una sensibilità commoventi. Il nonno materno suicida, il seme di una follia che lento e tenace percorre la storia dei Bennet, come una premonizione, una minaccia, una condanna.
Realismo e onestà.
Niente buonismi, né piagnistei.
Se Bennet deve dire che a volte non sopporta sua madre, che forse non ne sentirebbe tanto la mancanza, lo dice. Senza girarci intorno, senza giustificarsi. Riesce ad astrarsi pur rimanendo assolutamente partecipe, dimostrano un obiettività senza pari, ed una maturità che – credo – si possa raggiungere solo col tempo. Io di certo non sarei in grado, adesso, di manipolare la mia vita, plasmarla nelle mie mani per farne una storia, per consegnarla ad altre menti, altre mani, altre voci. La parola chiave, probabilmente, è: accettazione. Quando la maggior parte della nostra vita è alle spalle, quando i nostri occhi sono quasi stanchi per il troppo vedere, per il troppo guardare, allora ci scopriamo sereni nell’analizzare ciò che siamo, i luoghi ai quali apparteniamo, le persone che ci hanno accompagnato, in qualche modo, fino a quel punto.
Una vita come le altre.
Già.
Colma di quotidiane tragedie, quotidiane noie, quotidiane sorprese.
Il dolore è presente, pesante, quasi opprimente, ma Bennet ci dimostra magnificamente come si possa accarezzare tutto con una vena di intelligente, amara ironia.
Inoltre, è sempre sconsigliabile lasciarsi sfuggire qualcosa in mia presenza perché, da buon istrione, sono sempre pronto a spiattellarlo se penso di poter finire anche solo un istante sotto i riflettori. Le zie invece sono meno prudenti dei miei genitori e non perdono occasione di farmi commenti irrispettosi su mamma da bambina o anche mamma al presente. Durante la guerra penso spesso alla fortuna di essere nato in Inghilterra e non di vivere in un Paese occupato, per non dire in Germania: in realtà i veri fortunati sono mamma e papà, perché li consegnerei alla Gestapo senza battere ciglio, se questo significasse guadagnare il centro della scena.”
La semplicità di un uomo che ha due completi: il solito e l’elegante, che se si sforza di sorridere sembra Somerset Maugham corrucciato, che resta accanto ad una moglie ferita, terrorizzata, che teme tutto e tutti e si smarrisce nei meandri di una mente impazzita. La solidarietà tra i genitori di Bennet, la loro complicità, fatta di cose semplici, fatta di “cose noiose”, fatta di “non siamo adatti a questo”, fatta di distanze, è straordinaria; crea quasi una sorta di invidia, perché la verità è che tutti vorremmo questa tenacia, questa forte, indissolubile relazione, forse intrisa di ordinarietà, ma salda attraverso il buio e solida in un mare di luce.
Una delle immagini più belle è quella del matrimonio, organizzato dal padre la mattina presto, quasi di fretta e in completa solitudine, per evitare a una moglie terrorizzata da folle e convenzioni un inutile circo.
Ecco perché non c’era la foto sulla credenza o nel cassetto della toilette. Alle otto di una fuligginosa mattina di settembre doveva esserci poca luce, senza contare che per scattare la fotografia ci voleva tempo, e comunque mio padre avrebbe etichettato la faccenda come ‘cancan’. Ma se io fossi un poeta scriverei di quei momenti nella grande chiesa vuota, dello sposo sulle spine, in abiti da lavoro, della sua sposa titubante, e del vicario, uomo di mondo, in piedi sui gradini dell’altare ad aspettare i rintocchi della campana: la pausa prima del via.”
Bennet ci consegna un universo, una vita, un quadro colmo di colori, sfumature, imprecisioni. Non uno di quei capolavori che lasciano senza fiato; piuttosto, uno di quei quadri che vorremmo con tutto il cuore aver dipinto noi, imperfetti e assolutamente autentici, specchi di ciò che siamo, echi di ciò che siamo stati e finestre su ciò che ci apprestiamo ad essere.
(Chiara Biondini).

1 commento:

CiammaiC ha detto...

Sono rimasto molto incuriosito. Prima o poi lo leggerò.