Dopo “Sportswriter” (1986), ritorna la vita di Frank Bascombe. Ora siamo nel 1988, Frank ha quarantaquattro anni e non è più un giornalista sportivo, ma fa l’agente immobiliare. E non dite “Che tristezza!”, perché già a pagina venti, circa, avrete cambiato idea. Ford porta il lettore nelle pieghe della vita. Per un istante tutto appare chiaro, giusto il tempo di pronunciare le parole scritte o di rileggere un paragrafo poi la vita si richiude alle spalle del protagonista e del lettore.
“Il giorno dell’Indipendenza” (1995) è ambientato poco prima del quattro luglio: Frank cercherà di vendere una casa ai Markham, arrivati dal Vermont, passerà un po’ di tempo col figlio Paul (l’ex moglie si è risposata) e vedrà, per una serata, Sally.
L’autore ha la capacità di dilatare il tempo. Ford ogni dieci anni circa scrive questo romanzo, dopo il terzo (The lay of the land, 2006) credo che abbia finito, un romanzo dove, durante una vicenda di pochi giorni Frank Bascombe, racconta quello che succede (non molto, in realtà: è vita quotidiana o quasi) e quello che pensa (molto: è una persona riflessiva). Costruisce spiegazioni, traccia le mappe che lo hanno condotto dove è ora e subito inizia a dubitarne.
Leggere Ford è sempre un’esperienza di profondità, il fatto che le coordinate del presente del racconto siano raccolte in uno spazio e in un tempo ristretti amplifica questa sensazione.
Una delle esperienze tipiche di Frank Bascombe, e anche una chiave della narrativa di Ford, è racchiuso nel sentimento del “quasi (ma non proprio)”.
“Nell’aria che si muove appena si sente ronzio umano e il respiro della risacca, il basso brusio delle radio e dell’acqua che copre parole dette in un sussurro. In tutto ciò c’è qualcosa che mi commuove fin quasi alle lacrime (ma non proprio); la sensazione di essere stato qui, o qui vicino, di essere stato qui tempo fa, soffrendo atrocemente, e che sono qui di nuovo, respiro la stessa aria di allora. Solo che niente si manifesta, niente fa un segnale. L’oceano serra le file, e altrettanto fa la terra”.
Anche nei rapporti amorosi Frank è una persona riflessiva e, come molti, essenzialmente stupida. Volevo scrivere “come tutti noi”, ma, si sa, ci sono menti acute e brillanti che non possono essere catalogate e in effetti non può esistere il concetto di “tutti noi” se si considera che alcuni esseri arrivano a compiere atrocità efferate oppure, più banalmente, arrivano a valutare come un capolavoro o anche solo un’opera letteraria un libro sui numeri primi e la solitudine che si avvicina più che altro al concetto di spazzatura piuttosto che a quello di letteratura. Oppure, forse, proprio il fatto di comprendere queste differenze può contenere l’idea che, in fondo, un “tutti noi” esista; cioè il concetto di fare due passi indietro e osservare la situazione.
“-Frank, fai troppi salti nel passare da un argomento a all’altro. Non riesco a seguirti molto bene-.
-La pensa così anche mia moglie. Forse dovreste parlarne, voi due. Credo di trovarmi più a mio agio nella corrente principale. E’ la mia versione del sublime-.
-E sei anche molto guardingo- dice Sally. -E non ti impegni. Lo sai, vero? Fai i salti, sei guardingo e non ti impegni. Non è una combinazione molto facile, per me-. (E neanche buona, ne sono certo).
-I miei giudizi non sono molto solidi- dico -e quindi cerco di non causare troppo disturbo-”.
Ecco, la scrittura di Ford è quasi, ma non proprio, così.
sabato 20 settembre 2008
sabato 13 settembre 2008
Povero te
E povero me che ti leggo, caro Giralt Torrente, o meglio ti ho letto, un po’ a casa, distratto dalle forme del parquet, un po’ seduto sotto un albero, prima di iniziare a lavorare, guardando l’orologio aspettando di telefonare al mio amore. In fondo solo povero te.
Madre, padre, e due fratelli, anzi un fratello e un fratellastro (il birichino è il padre…). E soprattutto il protagonista, il fratello di cui sopra, e sua moglie Marta. Fine.
Il lungo monologo del protagonista si trasforma in un’analisi dell’infanzia, dell’amore, e della vita in generale. “Gli esseri felici” di Marcos Giralt Torrente è un trattato di anatomopatologia dei sentimenti. La narrazione procede come un’imbarcazione governata ora con mano sicura, ora abbandonata alla corrente.
L’autore di fronte a una materia tanto vasta non riesce sempre a padroneggiare il racconto, d'altronde fin dalle prime pagine dichiara che: “raccontiamo storie mutile non perché vogliamo farlo, ma perché qualsiasi storia, per quanto possa essere puro il suo proposito, ha vari modi di essere narrata e non è possibile utilizzarli tutti. L’unica risposta a perché si racconta è lo stesso raccontare”.
La molteplicità è un’ossessione che ritorna più volte, le possibilità immaginate e non realizzate sono un tema analizzato a fondo: a questo punto è naturale che le onde travolgano il narratore ed il racconto inizi ad andare alla deriva.
Amore e morte, topoi dell’arte, spingono a parlare e a narrare. “Abbiamo paura dell’amore perché conduce alla verità, mentre per continuare a vivere abbiamo bisogno della finzione”. Le verità sull’amore… parlare d’amore, in maniera esplicita, significa camminare su un terreno minato da stereotipi. Ogni frase rischia di scivolare nel déjà-entendu di un bacio perugina.
L’inizio del romanzo-monologo è ben calibrato, i passaggi temporali, le pause, le rivelazioni e le riflessioni non banali inducono a proseguire la lettura. Bisogna riconoscere a Torrente, quando non gira a vuoto, di saper scrivere in modo incisivo. A proposito dell’altro topos, a cui accennavo prima, la morte, ecco le sue parole: “I morti non parlano, lasciano cassetti chiusi e magari figli, ma la loro stessa condizione immateriale li protegge dal passare del tempo, li rende forti, non come i vivi che s’indeboliscono e si contraddicono e commettono errori. Per dimenticare un morto è necessario che nessuno voglia ricordarlo. Perché un vivo sia dimenticato generalmente è sufficiente lui stesso”.
Non è di certo un’opera insulsa o spregevole come, ad esempio, la letteratura masturbatoria di Giordano, “Gli esseri felici” non è neppure un’opera riuscita, ma di questo è consapevole lo stesso autore, l’urgenza del racconto, la fragilità di un amore da vivere senza finzioni sono il riscatto per pagine vuote, e la sensazione finale è quella di aver osservato l’intimità dei personaggi e vissuto con loro. Puoi fare di meglio Marcos.
Madre, padre, e due fratelli, anzi un fratello e un fratellastro (il birichino è il padre…). E soprattutto il protagonista, il fratello di cui sopra, e sua moglie Marta. Fine.
Il lungo monologo del protagonista si trasforma in un’analisi dell’infanzia, dell’amore, e della vita in generale. “Gli esseri felici” di Marcos Giralt Torrente è un trattato di anatomopatologia dei sentimenti. La narrazione procede come un’imbarcazione governata ora con mano sicura, ora abbandonata alla corrente.
L’autore di fronte a una materia tanto vasta non riesce sempre a padroneggiare il racconto, d'altronde fin dalle prime pagine dichiara che: “raccontiamo storie mutile non perché vogliamo farlo, ma perché qualsiasi storia, per quanto possa essere puro il suo proposito, ha vari modi di essere narrata e non è possibile utilizzarli tutti. L’unica risposta a perché si racconta è lo stesso raccontare”.
La molteplicità è un’ossessione che ritorna più volte, le possibilità immaginate e non realizzate sono un tema analizzato a fondo: a questo punto è naturale che le onde travolgano il narratore ed il racconto inizi ad andare alla deriva.
Amore e morte, topoi dell’arte, spingono a parlare e a narrare. “Abbiamo paura dell’amore perché conduce alla verità, mentre per continuare a vivere abbiamo bisogno della finzione”. Le verità sull’amore… parlare d’amore, in maniera esplicita, significa camminare su un terreno minato da stereotipi. Ogni frase rischia di scivolare nel déjà-entendu di un bacio perugina.
L’inizio del romanzo-monologo è ben calibrato, i passaggi temporali, le pause, le rivelazioni e le riflessioni non banali inducono a proseguire la lettura. Bisogna riconoscere a Torrente, quando non gira a vuoto, di saper scrivere in modo incisivo. A proposito dell’altro topos, a cui accennavo prima, la morte, ecco le sue parole: “I morti non parlano, lasciano cassetti chiusi e magari figli, ma la loro stessa condizione immateriale li protegge dal passare del tempo, li rende forti, non come i vivi che s’indeboliscono e si contraddicono e commettono errori. Per dimenticare un morto è necessario che nessuno voglia ricordarlo. Perché un vivo sia dimenticato generalmente è sufficiente lui stesso”.
Non è di certo un’opera insulsa o spregevole come, ad esempio, la letteratura masturbatoria di Giordano, “Gli esseri felici” non è neppure un’opera riuscita, ma di questo è consapevole lo stesso autore, l’urgenza del racconto, la fragilità di un amore da vivere senza finzioni sono il riscatto per pagine vuote, e la sensazione finale è quella di aver osservato l’intimità dei personaggi e vissuto con loro. Puoi fare di meglio Marcos.
giovedì 11 settembre 2008
11 settembre. 35 anni fa…
“Nell’aria sottile che respirerete dopo l’undici settembre”
Robert Wilson
L’undici settembre del 1973, il golpe militare guidato dal generale Augusto Pinochet, poneva fine al governo e alla vita di Salvador Allende, morto nel Palacio de la Moneda, assediato e poi invaso dall’esercito cileno.
S’inaugurava il regime del terrore di Pinochet che ha causato diverse migliaia di vittime, mentre secondo le stime, contestate, del rapporto Rettig, quelle torturate furono trentamila.
Da “Killing Hope” di William Blum (“Il libro nero degli Stati Uniti”, ed. Fazi, 2004):
“Il ruolo americano in quel giorno fu sostanziale, benché nascosto. Il colpo di stato ebbe inizio nel porto del Pacifico di Valparaiso, con la spedizione a Santiago delle unità cilene di Marina, mentre al largo incrociavano unità americane, apparentemente per partecipare a manovre congiunte con la Marina cilena. Un apparecchio americano WB-575, un sistema di controllo delle comunicazioni aviotrasportato, pilotato da ufficiali americani, sorvolava lo spazio aereo del Cile. Nello stesso momento, 32 aerei da ricognizione e caccia americani atterravano alla base statunitense di Mendoza in Argentina, non lontano dal confine con il Cile [1].
Fu così che il paese rimase isolato per una settimana, mentre circolavano carri armati e i soldati entravano negli edifici.
I poveri ritornarono alla loro condizione naturale, e gli uomini di mondo, a Washington e nelle sale della finanza internazionale, aprirono i loro libretti degli assegni. Un anno più tardi il presidente Gerald Ford sentì il bisogno di dichiarare che ciò che gli Stati Uniti avevano fatto in Cile era nel miglior interesse del popolo cileno e certamente nel nostro miglior interesse[2]. Tra le righe la dichiarazione ha un che di macabro”.
Robert Wilson
L’undici settembre del 1973, il golpe militare guidato dal generale Augusto Pinochet, poneva fine al governo e alla vita di Salvador Allende, morto nel Palacio de la Moneda, assediato e poi invaso dall’esercito cileno.
S’inaugurava il regime del terrore di Pinochet che ha causato diverse migliaia di vittime, mentre secondo le stime, contestate, del rapporto Rettig, quelle torturate furono trentamila.
Da “Killing Hope” di William Blum (“Il libro nero degli Stati Uniti”, ed. Fazi, 2004):
“Il ruolo americano in quel giorno fu sostanziale, benché nascosto. Il colpo di stato ebbe inizio nel porto del Pacifico di Valparaiso, con la spedizione a Santiago delle unità cilene di Marina, mentre al largo incrociavano unità americane, apparentemente per partecipare a manovre congiunte con la Marina cilena. Un apparecchio americano WB-575, un sistema di controllo delle comunicazioni aviotrasportato, pilotato da ufficiali americani, sorvolava lo spazio aereo del Cile. Nello stesso momento, 32 aerei da ricognizione e caccia americani atterravano alla base statunitense di Mendoza in Argentina, non lontano dal confine con il Cile [1].
Fu così che il paese rimase isolato per una settimana, mentre circolavano carri armati e i soldati entravano negli edifici.
I poveri ritornarono alla loro condizione naturale, e gli uomini di mondo, a Washington e nelle sale della finanza internazionale, aprirono i loro libretti degli assegni. Un anno più tardi il presidente Gerald Ford sentì il bisogno di dichiarare che ciò che gli Stati Uniti avevano fatto in Cile era nel miglior interesse del popolo cileno e certamente nel nostro miglior interesse
[1]Covert actions in Chile, 1963-1975, The selected Commitee to Study the Governmental Operations, Senato degli Stati Uniti (18, dicembre, 1975). [2] New York Times, 14 settembre, 1974, p. 22.
mercoledì 3 settembre 2008
Una luccicante follia. “Uno strano destino” di Daniel Woodrell.
“Il mondo a cui lei aspirava ci sembrava il mondo in un sogno di un bambino, tranne, okay, per la prostituzione maschile e le estorsioni”.
“Uno strano destino” (ed. or. “Tomato Red”, 1998) è il secondo titolo tradotto da Fanucci, ma Woodrell non pare avere raggiunto la fetta di pubblico adeguata alla bellezza della sua scrittura. Non credo nella teoria degli happy few, purtroppo è anche vero che neppure “Cutter e Bone” di Newton Thornburg, un vero capolavoro della letteratura, ha raggiunto le vette delle classifiche. Allora? Io intanto vi dico che Woodrell è un genio, poi fate voi.
Daniel Woodrell ambienta le sue storie nel Missouri dei Monti Ozark: il paesaggio creato sulla pagina è vivo, la scrittura di Woodrell procede per immagini e sensazioni. Il romanzo è breve, la prosa densa.
Tra roulotte, case mobili e notti alcoliche rotte dal fischio di un treno, si consuma la storia di Sammy Barlach: di lui conosciamo solo quanto riportato sulla patente. L’io narrante senza passato evoca ricordi di un’epica western trasfigurata in film e racconti. Con quello di Sammy si incrociano i destini di Bev e dei suoi figli, Jason e Jamalee. Un quartetto male assortito con dinamiche di attrazione sessuale, di odio e amore incondizionato tali da riempire la vita di un analista freudiano.
Woodrell può ricordare James Sallis per l’accuratezza e insieme la liricità della prosa.
I capitoli sono piccoli tasselli e l’intero romanzo è un’opera ottenuta per sottrazione.
“Sedevamo in cucina piuttosto a lungo, e lasciavamo che il caldo ci dominasse così non dovevamo farlo noi”.
L’azione è lineare, però la linea è corretta da una ponderata follia. La luce è troppo accecante. La notte scuote i ricordi. E anche il paesaggio non sembra trovare pace.
“Questa valle, di notte o durante il giorno, aveva le sembianze di una creatura enorme svenuta, qualcosa che aveva corso, aveva corso finché non aveva finito la benzina ed era crollata spossata esattamente qui. Le case erano state lanciate lungo questa increspatura profonda nelle colline, e l’increspatura rappresentava la posizione di un essere derelitto collassato. Legname da sterpaglia, cumuli di spazzatura ed elettrodomestici d’epoca erano sparsi lungo i pendii e attorno alle case inclinate per servire da confine tra qui e qualunque altra cosa non fosse qui”.
Daniel Woodrell: fatevi un favore, segnatevi questo nome.
“Uno strano destino” (ed. or. “Tomato Red”, 1998) è il secondo titolo tradotto da Fanucci, ma Woodrell non pare avere raggiunto la fetta di pubblico adeguata alla bellezza della sua scrittura. Non credo nella teoria degli happy few, purtroppo è anche vero che neppure “Cutter e Bone” di Newton Thornburg, un vero capolavoro della letteratura, ha raggiunto le vette delle classifiche. Allora? Io intanto vi dico che Woodrell è un genio, poi fate voi.
Daniel Woodrell ambienta le sue storie nel Missouri dei Monti Ozark: il paesaggio creato sulla pagina è vivo, la scrittura di Woodrell procede per immagini e sensazioni. Il romanzo è breve, la prosa densa.
Tra roulotte, case mobili e notti alcoliche rotte dal fischio di un treno, si consuma la storia di Sammy Barlach: di lui conosciamo solo quanto riportato sulla patente. L’io narrante senza passato evoca ricordi di un’epica western trasfigurata in film e racconti. Con quello di Sammy si incrociano i destini di Bev e dei suoi figli, Jason e Jamalee. Un quartetto male assortito con dinamiche di attrazione sessuale, di odio e amore incondizionato tali da riempire la vita di un analista freudiano.
Woodrell può ricordare James Sallis per l’accuratezza e insieme la liricità della prosa.
I capitoli sono piccoli tasselli e l’intero romanzo è un’opera ottenuta per sottrazione.
“Sedevamo in cucina piuttosto a lungo, e lasciavamo che il caldo ci dominasse così non dovevamo farlo noi”.
L’azione è lineare, però la linea è corretta da una ponderata follia. La luce è troppo accecante. La notte scuote i ricordi. E anche il paesaggio non sembra trovare pace.
“Questa valle, di notte o durante il giorno, aveva le sembianze di una creatura enorme svenuta, qualcosa che aveva corso, aveva corso finché non aveva finito la benzina ed era crollata spossata esattamente qui. Le case erano state lanciate lungo questa increspatura profonda nelle colline, e l’increspatura rappresentava la posizione di un essere derelitto collassato. Legname da sterpaglia, cumuli di spazzatura ed elettrodomestici d’epoca erano sparsi lungo i pendii e attorno alle case inclinate per servire da confine tra qui e qualunque altra cosa non fosse qui”.
Daniel Woodrell: fatevi un favore, segnatevi questo nome.
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