mercoledì 31 dicembre 2008

Musica, Circolo Pueblo e Vampire Weekend. La playlist immaginaria...


Uscito verso l’inizio dell’anno “Vampire Weekend”, album di debutto per un gruppo della Columbia University, è nato mescolando gli angoli più brillanti della musica indie con l’afro beat e la melodia pop. Non vedo disco migliore per concludere l’anno. Stupendo. Se non lo avete, cercate di rimediare quanto prima. Una meraviglia.

Naturalmente ho anche una playlist per i volenterosi. Una volta mettevo musica al Circolo Pueblo di C.so Palestro a Torino, ma i proprietari, appartengono a quella odiosa categoria di persone che dell’ipocrisia hanno fatto un’arte, in grado di protestare per i diritti umanitari in Birmania, ma lieti di fregarsene se una persona sta male a 50 metri da casa loro. La differenza in tutto è importante. Se un mondo diverso è possibile, persone tanto squallide non dovrebbero farne parte… sogni.

Happens to us all otherwise…
1. Killers “Shadowplay” (Control – Ost)
2. The Long Blondes “Guilt” (Couples)
3. Of Montreal “Wicked Wisdon” (Skeletal Lamping)
4. Vampire Weekend “Cape Cod Kwassa Kwassa” (Vampire Weekend)
5. Drive By-Truckers “3 Dimes Down” (Brighter than creation’s dark)
6. Okkervill River “Lost Coastlines” (The Stand In)
7. Death Vessel “Jitterakadie” (Nothing is precious enough)
8. Bound Stems “Happens To Us All Otherwise” (The family afloat)
9. Ryan Adams “Go easy” (Cardinology)
10. Cat Powers “Metal Heart” (Jukebox)

Queste canzoni non potete ascoltarle al Pueblo: dubito che posseggano gli originali… esiste la pirateria, è vero, e potrebbe essere [uso il condizionale: non esprimo un dato di fatto certo e visto più volte con i miei occhi] potrebbe essere certamente nello stile del locale... mah...
Ascolto "Vampire Weekend" e sorrido.
Le canzoni, i suoni, le parole mie o solo lette sono sempre per la mia ragazzina con i capelli rossi. Sempre.

lunedì 29 dicembre 2008

Nessuna verità – Body of Lies di Ridley Scott


In società ridotte allo sperpero e alla sovrabbondanza, il terrore è l’unica azione significativa. C’è troppo di tutto, più significati e messaggi di quanti ne possiamo usare in diecimila vite”.
Don DeLillo, Mao II, 1991.

Non esiste una visione in grado di cogliere tutte le sfumature delle azioni terroristiche: Body of Lies, rinuncia all’esistenza di una verità salvifica e intreccia la rete del racconto intorno a personaggi realistici. Russell Crowe, ingrigito e grasso, dirige le operazioni dell’Agenzia in Medioriente. Leonardo DiCaprio, barbuto e sudaticcio, è l’uomo sul campo.
Nessuna verità è un ritorno al cinema senza fiato corto. La storia viaggia oltre le inquadrature. Con un ritmo dettato da fotografia ed espressioni, prima ancora che da azioni e dialoghi. Ridley Scott mescola più volte le linee narrative. Intreccia. E’ un regista capace di assorbire umori e sensazioni, ribaltando tutte le emozioni sulla pellicola.
Inseguendo il capo di una rete terroristica tra Iraq e Giordania, lo spettatore può vedere la finzione. E la realtà. Più volte dopo le riprese cinematografiche, Scott passa all’uso di immagini di finti telegiornali per raccontare gli attentati. Prima la finzione, poi il secondo livello di finzione. Se si considera che anche nella storia il ricercato è braccato servendosi di un’ulteriore finzione, è facile capire quale grado di intelligenza raggiunga il racconto: Nessuna verità – Body of Lies è uno dei migliori film del 2008.

mercoledì 24 dicembre 2008

Il meglio del 2008 (e il peggio)

I criteri sono semplici: la pubblicazione, in Italia, nell'anno 2008.

Una buona annata, per brevità condenserò il meglio in 5 titoli:

1. Richard Powers, Il fabbricante di eco

2. Don DeLillo, L'uomo che cade

3. Junot Diaz, La breve e favolosa vita di Oscar Wao

4. Newton Thornburg, La strana vita di Cutter e Bone

5. David Leavitt, Il matematico indiano


Riguardo al peggio, fortunatamente, le scelte sono più semplici, perché ho letto pochi libri davvero orrendi, ma tra questi pochi spiccano:

1. Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi

2. Thomas R. Pearson, Breve storia di una piccola città

3. Patrick Fogli, Il tempo infranto

4. Anne Holt, Quello che ti meriti

5. Andrea Vitali, Dopo breve e penosa malattia


Il libro di Giordano, in particolare, si segnala per la sua assoluta inutilità. Anzi mi correggo, il volume è utile in quanto permette di capire qualcosa sui lettori: chi apprezza questo genere di spazzatura, della letteratura non capisce niente, o quasi.

sabato 20 dicembre 2008

Dopo lunga e penosa malattia di Andrea Vitali. La lingua cadavere.

Dopo lunga e penosa malattia”. Questo il titolo. Penosa, ma non lunga la narrazione di Andrea Vitali. “Il Lonati” medico condotto, come l’autore, è il protagonista di questo romanzetto. In pochi rapidi capitoli si dipana il mistero riguardante la morte del notaio Galimberti. Ambientato a Bellano sul Lago di Como, in novembre, il finto giallo di Andrea Vitali è contaminato dalla noia del clima, probabilmente.
La scrittura monocorde è il vessillo di una letteratura logora, lisa, simile a un vecchio maglione che non vorreste indossare e il cui ricordo avevate rimosso. “Dopo lunga e penosa malattia” ricicla poche idee, non siamo nel campo della sperimentazione. Il Vitali sposa una lingua cadaverica per raccontare una storia davvero penosa.
Un libro così lo frantumerei con una chiave inglese o una pinza… tanto per ricordare lo splendido romanzo di Andrea Cisi, “Cronache dalla Ditta”, ché la letteratura in Italia è viva e “vitale”, ma il mercato spesso illumina il peggio. Troppe volte il numero di copie vendute è un avviso ai naviganti: il segnale certo del pericolo.
Anche se il Vitali usa, in alcuni passaggi, assonanze e strutture ritmate che rimandano alla poesia, il risultato delude. “I profili delle montagne erano netti come denti incisivi”.
Il Vitali ha abborracciato un raccontino per Natale. L’editore ha aumentato il numero delle pagine: i capitoli di quindici righe non hanno altra spiegazione. In totale abbiamo 165 pagine ulteriormente gonfiate a 184. Una comoda misura per i regali natalizi. Il prezzo è contenuto come la prosa che deve vendere. Un’opera (od operazione) patetica.

venerdì 12 dicembre 2008

Italia De profundis di Giuseppe Genna. Il romanzo terminale

Genna esplora pulsioni e fantasie. Finge di fingere. Non finge e questo significa che i fatti sono veri o che i fatti sono inventati.
Italia De Profundis” è il romanzo allo stadio terminale. Niente può spingersi oltre. L’urlo si mescola ai rantoli. Più volte siamo di fronte a un corpo ribelle, la lingua strazia l’aria. Di piacere o di dolore. Eroina. Incontri sadomaso con Drag Queen. Eutanasia. Oppure MySpace di Rupert Murdoch. L’ultima abiezione prima del villaggio turistico a Cefalù nell’estate del 2007.
Il rumore delle parole sulla pagina si avvicina alla rasoiata. Dell’acqua o del metallo. Il sapore anche è metallico e salmastro: sodio cloruro allo 0,9% ed emoglobina.
Racconta se stesso Giuseppe Genna. Sfrutta il consiglio di un finto scrittore per scrivere veramente. Puntualizza e chiosa. L’anno è lo sventurato 2007. E tutti i momenti che lo hanno preceduto e lo seguono. Anche il gesto di leggere è “romanzo”. La struttura è lineare. Non capisco a chi voglia parlare. Eppure parla. Consumo una matita per prendere appunti (in realtà poca grafite). Diamante e grafite, entrambi di carbonio. Cambiano legami e struttura. Cambia tutto.
Le parole. Le lettere. La punteggiatura. Il romanzo si aggroviglia e sembra in pieno deragliamento. Rimastica i frammenti della lingua. Affonda nelle “misinterpretazioni”. Si affida alla disintossicazione come principio di realtà. “La disintossicazione, non la fruizione di sostanze, è l’espansione della coscienza”.
Genna traccia una strada. Brucia le tracce. E la “pirosi ultima” di cui parla più volte. Più volte prima che si manifesti realmente.
La ragnatela dei collegamenti è un’immagine impressa sulla retina. Esiste nella memoria delle sinapsi. S’incrocia nel chiasma ottico. Il lettore si perde. Si deve perdere, come per la disintossicazione, per acquistare senso, un livello di attenzione maggiore.
E’ tutto finito. E’ un capolavoro, e sono stufo.

mercoledì 10 dicembre 2008

Omicidio a Road Hill House di Kate Summerscale. Inganni, segreti e la nascita del poliziesco.

Nulla rimane celato per sempre”. Wilkie Collins

Nel 1860 l’omicidio di un bambino in una rispettabile famiglia della borghesia inglese attira le attenzioni di pubblico, giornalisti e scrittori. La straordinaria bravura di Kate Summerscale permette di inserire citazioni o brevi note senza interrompere l’emozione della lettura. Il giallo classico si unisce alla ricostruzione storica in un saggio di grande bellezza. Ogni parola è pesata. Tutte le frasi sono necessarie. I particolari contano.
Conosciamo i nomi di chi entrò nella casa il 29 giugno, perché ognuno di quei visitatori avrebbe potuto essere l’assassino. Sappiamo quando fu riparata una certa lampada, perché avrebbe potuto illuminare la scena del crimine. Sappiamo quando fu tagliata l’erba in giardino, perché la falce adoperata avrebbe potuto essere l’arma del delitto. Il ritratto di Road Hill House che ne viene fuori è morbosamente dettagliato, ma incompleto”.
Quello che rende unico questo libro è l’indagine su investigazione reale che ha modificato la storia di un intero genere letterario: il romanzo poliziesco. Tutto, o quasi, sembra nascere nell’estate del 1860.
L’ispettore Wicher, membro di una squadra di investigatori che costituirà il germe della futura polizia di Scotland Yard, è uno dei protagonisti di “Omicidio a Road Hill House”. Wicher fornirà numerosi spunti a Collins, Dickens e ad altri autori. Si creerà un nuovo clima: “In molti ebbero l’impressione che Wicher avesse finito per violare il santuario della classe media, la casa, distruggendone la privacy. Aveva messo a nudo l’atmosfera corrotta della famiglia, fatta di trasgressioni erotiche, crudeltà mentale, follia, solitudine, gelosia e disprezzo. Le sue indagini contribuirono a creare un diffuso voyeurismo e un clima di sospetto; il detective divenne una figura dell’oscurità, demone e semidio”.
Omicidio a Road Hill House” è un’opera indispensabile per comprendere l’evoluzione del genere poliziesco. Un saggio romanzato dove ogni sentimento o certezza si confronta con il suo opposto. La letteratura di genere nasce dallo sguardo verso l’oscurità e, anche se si sposterà verso l’intrattenimento, manterrà sempre il suo marchio intinto nel sangue. Come ha detto David Peace: “Noi siamo definiti e dannati dai crimini del tempo in cui viviamo".

L’autrice non si limita a documentare la nascita della figura dell’investigatore, ma analizza anche l’uso di termini come hunch o lead, legati all’indagine di polizia e che iniziano a essere usati proprio nella metà dell’Ottocento. La storia plasma la lingua e la letteratura. E il delitto trasforma anche gli oggetti: “ogni cosa era potenzialmente importante, tutto poteva celare segreti. Solo quando l’omicida fosse stato acciuffato gli oggetti quotidiani avrebbero riacquistato la loro innocenza”.

Invenzione e rovina di un detective”.
Charlotte Brontë per prima paragonò l’investigatore a un segugio. Kate Summerscale, mentre si inoltra sospesa tra saggio e romanzo nella risoluzione dell’enigma, continua fornire informazioni sulla figura dell’investigatore; sulla percezione che di lui hanno i lettori e le persone, in generale. Il sottotitolo della sua opera mette in risalto un’essenziale chiave di lettura del suo saggio. Se da un lato abbiamo il delitto (nel titolo), dall’altro tutto si aggroviglia e si dipana intorno al detective Wicher. L’ispettore Wicher, come tutti in quest’opera, è stata una persona reale. E l’uomo spesso fallisce. “Un detective di carta ci mette subito di fronte a un delitto e poi alla fine ci assolve da ogni complicità. Spazza via i sensi di colpa, l’incertezza, la presenza costante della morte”.
Summerscale non dimentica che Saville, il bambino ucciso, è realmente esistito. Migliaia di atti e documenti consultati. Oltre 40 pagine di note, informazioni bibliografiche, foto, illustrazioni e piantine. E anche referti autoptici. Nel suo post-scriptum l’autrice ricorda un breve frammento riportato da un medico. E’ una luce che riporta alla realtà. E la realtà non è una tragedia a lieto fine. La mano del bambino si alza a proteggere il collo. Inutilmente.

mercoledì 3 dicembre 2008

Tortuga di Valerio Evangelisti. Benvenuti a Disney World.

Arraffiamo di tutto e vendiamo di tutto, uomini inclusi. Noi siamo il futuro e nessuno ci fermerà”.

Tra masconi, coffe di trinchetto e terzaruoli si srotola l’erudita narrazione di Valerio Evangelisti. Sullo sfondo le complesse manovre politiche europee (è il 1685), in primo piano orzate, arrembaggi e scontri di pirati. “Tortuga” è un libro di avventure senza troppe pretese. Le derive sociopolitiche sono lasciate al chirurgo sadico De Lussan, ma occupano, fortunatamente, mezza pagina in tutto.Il resto è intrattenimento di buona fattura. Evangelisti non rinuncia a nessun vezzo: compare anche una versione in nuce della canzone Bamba: “Yo no soy marinero, soy capitán” ribadisce De Grammont prima dell’attacco. Personaggi ben delineati. Anche se la figura del gesuita dal torbido passato ormai puzza di vecchio, Rogerio, il protagonista, è un utile aggeggio narrativo per scorrere veloci sulla trama. Romanzo dalle dimensioni contenute e su cui mi pare inutile sprecare altre parole. Un esercizio riuscito, di cui non si sentiva la mancanza.