mercoledì 28 maggio 2008

Cuori solitari di John Harvey


"Dapprima, quattro battute d’introduzione. Tromba con sordina sostenuta dai sommessi accordi del pianoforte; la stessa frase ripetuta, invertita, l’ultima nota che sfuma nei colpi delle spazzole del rullante ed ecco, rigorosamente a tempo, la voce di Billie”.
Con una nuova traduzione Giano riporta in libreria “Cuori solitari” di John Harvey. Pubblicato in Inghilterra nel 1989 questo romanzo propose al pubblico Charlie Resnick, un ispettore di polizia di Nottingham. Divorziato, un po’ soprappeso, ma dotato di fascino. Vive con quattro gatti: Dizzy, Bud, Pepper e Miles. Così tanto per chiarire i suoi gusti musicali. In questa prima storia (i romanzi che lo vedono protagonista sono finora undici) il lettore entra in sintonia con Resnick. Le vite private dei personaggi compaiano davanti agli occhi in brevi frammenti. L’abito stazzonato, le scarpe pulite con cura che subito s’imbrattano di fango, il sandwich che si sbriciola sul mento, la voce di Billie Holiday che arriva dagli anni ‘50: “Era il 1954 e stava per compiere quarant’anni, ma le restava poco da vivere. Morì in un letto d’ospedale, piantonata da un poliziotto e con i soldi del prossimo buco legati alla gamba malata.
But I don’t stand
A ghost of a chance with you
”.
Questo è Resnick. Questo e molto altro ancora.
E’ inverno a Nottingham. L’amore cercato nelle inserzioni per cuori solitari può portare a strane conoscenze. Una donna assassinata. Un ex fidanzato violento. Tracce semplici e percorsi più oscuri. L’importanza della trama è in secondo piano. Già nei racconti di Conan Doyle alla fine il lettore scorgeva nelle geniali deduzioni di Holmes quello che in realtà erano, ovvero felici e brillanti intuizioni. La maschera dell’enigma aveva ceduto il posto al detective. Il carisma del personaggio ha decretato la fama di Sherlock Holmes. Ed è il fascino dei personaggi, le loro vite ciò che rende unici i romanzi di John Harvey o di Ian Rankin. Aspettiamo ancora Resnick e la penna di Harvey, il gesto lieve dello scrittore che sembra scomparire lasciando spazio alla storia e ai suoi protagonisti

domenica 25 maggio 2008

L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford




Tra il 1867 e il 1881 la banda dei James aveva compiuto più di venticinque rapine a banche, treni e diligenze. Ma ad eccezione di Frank e Jesse James, i membri originali della banda erano tutti morti o in prigione
Il racconto di Andrew Dominik, che ha scritto la sceneggiatura basandosi sul romanzo di Ron Hasen, usa una voce fuori campo. Un commento discontinuo alle immagini che scorrono per oltre due ore e mezza. Una grande opera. Ricca di dialoghi e di inquadrature silenziose. La neve che si sposta lenta in fiocchi. Una strada che taglia in due lo schermo incorniciata dal telaio di una porta.
Le immagini si fanno a volte sfuocate, proprio ai margini. Qualcosa sfugge.
“… [Jesse James] soffriva anche di un’infiammazione alle palpebre che lo costringeva a strizzare gli occhi più del normale, come se il creato fosse per lui una visione troppo intensa”.
Dominik firma un film perfetto, aiutato dalla fotografia di Roger Deakins (Non è un paese per vecchi, Nella valle di Elah e molti altri). Brad Pitt offre una grande interpretazione, ma riesce a superarlo Casey Affleck, eccezionale nella parte del “codardo” Robert Ford, che uccise Jesse James sparandogli alle spalle, mentre era ospite a casa sua.
Quando Ford si muove tra le stanze vuote dell’abitazione di Jesse James, il giorno prima dell’assassinio, lo vediamo sfiorare gli oggetti, toccare i suoi abiti: “Si immaginò a trentaquattro anni. Si immaginò in una cassa da morto”.
La musica di Nick Cave, che appare in una delle scene finali, e di Warren Ellis, accompagna lo spettatore dentro il racconto. Fino al 3 aprile del 1882. E dopo, fino alla fine del “little coward” Robert Ford. Il western è solo un luogo, “L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford” è una visione di quello che il western può raccontare. Una visione intensa.

sabato 24 maggio 2008

Stefan Merrill Block o forse era Powers. Non mi ricordo...




Nella rubrica "Attenti a quel libro" di Tiziano Gianotti sull'inserto "D" di Repubblica, viene annunciato, squilli di tromba, "l'esordio dell'anno". Gianotti, ottimo editore con Giano, ha ceduto poi il marchio a Neri Pozza. E l'esordio dell'anno sarebbe un libro pubblicato da... Neri Pozza?


Sì. Il libro è "Io non ricordo" di Stefan Merrill Block, peccato però che sopra l'articolo sia riportato in grassetto: Richard Powers, Il fabbricante di eco, Mondadori, 18,50 euro (in realtà il prezzo è 20 euro). Di fianco appare anche un'immagine del libro di Powers, autore eccellente, che proprio con "The Echo Maker" ha vinto il National Book Award nel 2006.


Ora Stefan Merrill Block sarà ospite presso LETTERATURE - 7° Festival Internazionale di Roma: anche qui attenti, perché insieme a lui ci sarà Paolo Giordano, autore di uno dei peggiori esordi di tutti i tempi: "La solitudine dei numeri primi". Quindi se vi trovaste a passare dalle parti della Basilica di Massenzio, il 12 giugno, con delle verdure in tasca, prendete bene la mira... La foto di Giordano la potete vedere sulla terza di copertina del suo libro, che è in vendita anche nei supermercati, quindi è facile documentarsi.


Tutto questo per dire?
Che non sapevo cosa leggere, ma grazie a "D" ora posso scegliere tra "Io non ricordo" e "Il fabbricante di eco".

mercoledì 21 maggio 2008

Il bosco morto di James Sallis


Il titolo è cambiato, la bellezza del romanzo è rimasta identica.
Pubblicato come “Cypress Grove Blues” nel maggio del 2004, “Il bosco morto” di James Sallis è da alcune settimane in libreria. Verso fine giugno dovrebbe essere pubblicato anche “La strada per Memphis” dove ritorna Turner, il protagonista di “Cypress Grove”.


"Quindi ce ne stavamo in silenzio, a goderci l'uno la compagnia dell'altro. Due cittadini del mondo che, per un istante, si chiamano fuori dalla lotta, anche se entrambi hanno cose importanti a cui tornare, e che per un po' se la prendono comoda, seduti sulla veranda del tempo".
Ci sono libri che appena iniziati ti conducono in un luogo fatto di odori, silenzi, sguardi e sapori; provoca un brivido strano essere immersi in un mondo irreale dove risuona in maniera parfetta la vita, nelle sue sfumature più intime, nelle forme e nei modi che ancora non conosciamo, ma che da sempre ci appartengono. La scrittura di James Sallis circonda il lettore con la sua fisicità, e le sensazioni penetrano per osmosi, le parole si spalmano in bocca e si può sentire un gusto amaro, la dolcezza, il gelo o un sapore bruciante.
Ai margini di una piccola città del Tennessee vive Turner, alle spalle il Vietnam, il lavoro in polizia, la detenzione in carcere e, dopo una laurea, una breve attività come psicologo, prima di svanire tra i boschi del Tennessee. E, all'inizio del romanzo, è esattamente qui che lo troviamo, sulla veranda di una piccola casa vicino a un lago, a cui lentamente si sta avvicinando una jeep, che, passando attraverso una macchia di alberi, fa alzare in volo uno stormo di uccelli:"Gran parte di quegli alberi era lì da quaranta o cinquant'anni. Gran parte di quegli uccelli era lì da neanche un anno, e non vi sarebbe rimasta ancora a lungo. La mia, invece, era una situazione di mezzo".Un vagabondo ucciso seguendo uno strano rituale. Uno sceriffo, custode dell'anima rurale della provincia americana. Valerie Bjorn, dell'ufficio della polizia di stato, amante del blues e delle case vecchie, un'altra anima solitaria sopra un pezzo d'America lontano dalle città e immerso in un silenzio antico. Sono le relazioni che si intrecciano trai personaggi la rete che sostiene il romanzo, ogni nodo stretto con lentezza, con un'attenzione ossessiva ai silenzi che segnano la cadenza più intima della narrazione, capitolo dopo capitolo, con un ritmo ipnotico.
Nato nel 1944 nell'Arkansas, James Sallis, anche musicista, poeta e traduttore, ha scritto con "Il bosco morto" un romanzo che si può accostare a "Prateria" di William Least Heat-Moon (il secondo capitolo di un viaggio attraverso gli Stati Uniti iniziato con "Strade Blu"). E dello splendido libro di Least Heat-Moon può condividire il sottotitolo: "Una mappa in profondità".
Un piccolo spazio e pochi personaggi messi a nudo con una scrittura musicale e poetica. A poco a poco Turner racconta il proprio passato, e copre la cesura tra l'uomo che era e quello che è. In parallelo, a capitoli alterni, si sviluppa l'indagine sull'omicidio. I brani sugli anni passati in carcere hanno lo spessore delle migliori pagine di Edward Bunker, e l'autore riesce a evocare con pochi tratti essenziali un mondo dove "se non sai cosa fare del tempo, saprà lui cosa fare di te".Il racconto di vite, amori, assenze dolorose e silenziose presenze acquista, con lo sfondo di una piccola città rurale, una profondità inconsueta. "Saper perdere è la chiave di tutto, il segreto che nessuno vi rivela mai. Fin dal primo giorno, la vita è un ininterrotto accumularsi di necessità, desideri, paure, dipendenze, rimpianti, rapporti. Ci sono sempre. Ma potete decidere cosa farne. Dar loro una bella lustrata e riporre il tutto su uno scaffale. Nasconderle dietro casa, vicino a un salice piangente. Accatastarle in veranda e sederci sopra. Eravamo proprio in veranda, io e Val".
Con il tono di parole sussurrate tra gli alberi, impregnate di terra e calore, lontano dall'epica nera e tagliente di Cormac McCarthy, più profondo di Crumley e Lee Burke, James Sallis è una voce straordinaria della nuova narrativa americana.

martedì 20 maggio 2008

Cronache dalla Ditta di Andrea Cisi

“Mi aveva indicato il cartello appeso all’ingresso.
‘La pinza è uguale per tutti’ c’era scritto.
Non ho colto il messaggio, devo dire, ma l’ho tenuto presente”.

Il protagonista del romanzo di Andrea Cisi è un ragioniere programmatore, però lavora come operaio in una fabbrichetta. In una delle tante città della nebbia nella pianura padana. La Ditta è del “Boss”, uno che ha sempre troppi pensieri. “Essere Boss è difficile, tutte queste spese, questi giri finanziari che non posso capire”.
In “Cronache dalla Ditta”, Cisi racconta la vita in fabbrica, dove si svolge quasi l’intero romanzo. Usa personaggi memorabili, anche il gatto non è un semplice gatto, ma è il Fulvia, “il mio gatto maschio cingolato e idrorepellente”, e pure parlante. Andrea Cisi scrive usando un linguaggio sospeso tra comicità e malinconia. I discorsi alla deriva degli operai, chini a ripetere gli stessi gesti per otto ore, sono il filo conduttore della narrazione. Qui l’incipit di un’ode di Manzoni può essere scambiata per un’arte marziale: “tipo kung-fu, no?”.
“E fortunatamente, come sempre, in un attimo ci si perde” perché senza questi scambi di parole sul filo dell’assurdo, si rischierebbe di pensare a cosa si sta facendo, chiusi nel capannone della Ditta.
Le telefonate di lavoro sono tutte “zero prospettive”.
La casa è la Pupina e il Fulvia, “il mio gatto maschio risoluto e ribelle”.
La vita è timbrare il cartellino, bruciarsi mezz’ora di lavoro per un minuto di ritardo.
Ma anche se tocca tenerselo stretto il posto fisso, non è detto che lui tenga te. Un amico del protagonista finisce in “cassa integrazione straordinaria, dovuta al settore che non pompa più.
Il settore ha pompato per più di vent’anni, la proprietà ha fatto palate di soldi.
Oggi il settore non pompa più, la proprietà quei soldi li ha comunque via da qualche parte.
Chris invece è sulla strada”.
Andrea Cisi scrive. E ti affezioni a questi personaggi, Bomber, Almodovar, Stam, il Parrucca, l’operaia Maura. Passano le stagioni, cambia l’orario di lavoro. “Altra settimana bollente, qui in Padania. Rondini rallentate nel cielo, foglie accasciate al suolo dal peso dell’umidità”. Le vacanze con 940 euro al mese non esistono. E’ il ritratto di un mondo. Il romanzo è ambientato nel 2006, un anno di elezioni e di mondiali di calcio. Che poi c’è gente che s’interroga sull’Italia, che si è svegliata con la faccia reazionaria e xenofoba. E stanno a parlarci per ore, a scambiarsi risposte intelligenti. E l’Italia si è svegliata con le ruspe a lavoro, ma loro stanno ancora dormendo.
Andrea Cisi ha scritto un capolavoro, ma chi lo ascolta? Tutto troppo vero. Mi sembra che non ci siamo. Lo pensa il protagonista: non ci siamo.
Certo, domani è un altro giorno.Certo, se Rossella O’Hara avesse lavorato nella mia fabbrichetta forse non lo avrebbe nemmeno pensato che domani è un altro giorno.Avrebbe pensato forse che domani è un giorno uguale a oggi”.
No, non ci siamo. La verità magari è nascosta nell’enigmatica scritta in cinese che compare dentro i pacchi delle morsettiere:
Questa sì che è una complicazione, mi macera dentro. E se in quegli ideogrammi misteriosi fosse celata la soluzione di un intrigo internazionale? Se fosse il messaggio dentro la bottiglia?
-Hai mai trovato un messaggio dentro una bottiglia?- chiedo piano al Bomber.
-Sì- fa lui, -nella Pepsi. ‘Non hai vinto’-
E così alla fine ci tocca sperare nella lotteria o nel tappo di una bibita gassata. Ma la risposta la conosciamo già.

Andrea Cisi, “Cronache dalla Ditta”, pp. 230, Mondadori (Strade Blu), 15,50 €.

giovedì 15 maggio 2008

Dig yourself, Lazarus!





E’ vero mancano le ballate. Il pianoforte deve lasciare spazio alle chitarre, ma Warren Ellis e Mick Harvey fanno un ottimo lavoro. Se è vero che “people often talk about being scared of change”, Nick Cave, ritornato a incidere con i Bad Seeds, è più preoccupato del contrario. Non siamo sul terreno delle profezie e della dannazione. L’album “Dig, Lazarus, Dig!!!” è un tentativo di cambiare. Sicuramente il risultato non sarà all’altezza delle intenzioni, ma parliamo comunque di Nick Cave. Tolta la canzone che dà il titolo all’album, che personalmente, non ritengo la più riuscita, Hold on to yourself, Jesus of the Moon, Midnight Man sono una meravigliosa preparazione per la lunga chiusura finale di “More news from nowhere” con il suo sottofondo ipnotico che riesce a tenere insieme il fiume di parole. Belle le atmosfere non monocromatiche di queste dodici canzoni. Le melodie pencolanti, i loop, la struttura che ricorda una vecchia auto con i segni del tempo, ma ancora capace di trascinarci in un bel viaggio.“Dont it make you wanna get right back home/more news from nowhere/goodbye, goodbye, goodbye”.

La strana vita di Cutter e Bone




Nell'introduzione, Pelecanos accosta Newton Thornburg a Crumley e al Kem Nunn di "Surf City". In Italia Nunn è stato pubblicato da MeridianoZero, ma probabilmente i più erano troppo impegnati a leggere (o peggio rileggere) "Il gabbiano Jonathan Livingston" in edizione tascabile e non se ne sono accorti, che il mondo assomigli sempre di più a un'enorme pattumiera a cielo aperto non dovrebbe sorprendere. Sicuramente la voce di Crumley può trovare eco nelle pagine di "Cutter e Bone", un romanzo del 1976 che Fanucci ha portato in Italia.
Alex Cutter è un reduce del Vietnam, il braccio sinistro è ridotto a un moncherino, una gamba è in parte sostituita con acciaio e plastica e di un occhio rimane l'orbita vuota coperta da una benda nera. Richard Bone ha lasciato moglie e figlie a Chicago, sopravvive scambiando prestazioni sessuali con cibo e soldi, ma è innamorato della moglie del suo miglior amico Cutter, che lo ospita nella sua casa disastrata a Santa Barbara, dove si ammucchiano avanzi di junk food, lattine, bottiglie vuote, piatti sporchi.
L'America del dopo Vietnam è una presenza apocalittica alle spalle dei personaggi. L'omicidio di una ragazza. La figura ambigua di un ricco imprenditore. Gli elementi del giallo non contano. "Quando ero in Vietnam, ci siamo comportati come tutti i soldati che combattevano laggiù. Non come a My Lai, non a quei livelli, ma abbiamo fatto la nostra parte". Quando Thornburg scrive queste righe devono ancora arrivare la Thatcher e Ronald Reagan e la frase che lo rappresenta: "La prossima volta vi manderò Rambo". Letto anche oggi "Cutter e Bone" si rivela per quello che è: un capolavoro.
Stai a Santa Barbara, ma ti scopri a odiare la California. "Questo palcoscenico affollato su cui l'America continuava a sperimentare il futuro, per poi arretrare puntualmente". Nel romanzo vi sono pagine dolci e malinconiche, dove si entra in contatto con gli altri per brevi dolorosi istanti. In altri punti l'ironia feroce di Cutter travolge tutto: vediamo un mondo alla rovescia e non siamo certi che quella non sia la prospettiva giusta. E c'è una canzone ossessiva che inizia a suonarti nella testa e poi capisci che è qualcosa che avevi già dentro, come le parole di "It's Alright, Ma (I'm Only Bleeding)": l'America con i suoi interventi estetici esaspera le ferite.
"-Una via d'uscita? Ma ne esistono ancora-
-Se ne trovo una ti avviso- replicò Bone" (pag. 77).
E il romanzo è lì, perfetto e per questo terrificante, con quel finale che, appena letto lo sai già, ti segnerà per sempre.

domenica 11 maggio 2008

Goodbye Stalin



Dopo il film di Cronenberg qui siamo in un altro mondo, per stile, per forza narrativa, ma è comunque un buon romanzo. Un thriller ben costruito. Con ambiente e personaggi raccontati con passione. Dopo la presentazione alla London Book Fair i diritti sono stati venduti in ventidue paesi.
La Russia del 1953, nel periodo della morte di Stalin, è descritta con cura da Tom Rob Smith. Il clima di terrore, dove una parola sbagliata o una semplice inimicizia potevano significare la morte nelle miniere di Kolyma, è un elemento in grado di tenere alta la tensione narrativa. Fidarsi, ma controllare. Il precetto di Stalin crea un incubo quotidiano. La sede dell’MGB alla Lubjanka è il simbolo del terrore da cui la paura viene volontariamente alimentata. In un luogo nel quale nessuno può essere ritenuto un amico è difficile che si sviluppino movimenti controrivoluzionari. Nello straordinario film “Le vite degli altri” viene raccontato questo stesso clima, l’ambientazione, però, è quella di Berlino Est prima e dopo il 1989. Diversi i libri citati al termine del romanzo, testi che hanno aiutato l’autore nella ricostruzione del periodo storico. Una selezione tra cui probabilmente si noterà l’assenza de “I racconti della Kolyma” di Varlav Salamov (Adelphi, 1999).
“Bambino 44” ricorda anche le opere di Martin Cruz Smith, che ritorna in libreria proprio in questi giorni con “Il fantasma di Stalin”. Leo Demidov, il protagonista di “Bambino 44”, compie un percorso di scoperta e di trasformazione personale che dura per l’intero romanzo.Tom Rob Smith unisce alla ricostruzione storica la vicenda di Andrej Romanovič Čikatilo, il mostro di Rostov. Usa elementi della storia personale e giudiziaria di Čikatilo spostandoli negli anni '50 e concentrando i fatti in un arco di tempo minore (al mostro di Rostov furono in realtà attribuiti 53 omicidi commessi tra il 1978 e il 1990). Un romanzo che si legge senza pause, con un’ottima scelta del ritmo. I personaggi riescono a imprimersi nella mente del lettore grazie a una visione complessa dei sentimenti e delle loro emozioni. E’ interessante come l’autore decide di descrivere il rapporto tra Leo e la moglie Raisa. Dove tutto pare un compromesso, l’amore è qualcosa di sfuggente.
In Russia e non solo nel 1953 la criminalità non rientrava nella visione del regime, in un paese comunista “la criminalità non esiste”. Leo Demidov dovrà affrontare più di un ostacolo per arrivare al mostro e alla verità che nasconde. Ridley Scott girerà la trasposizione cinematografica di Child 44, con Richard Price come sceneggiatore (tra le altre cose Price è l’autore di Clockers, portato sullo schermo da Spike Lee, ed è stato collaboratore alla serie della HBO “The Wire” per cui hanno scritto anche Pelecanos e Lehane).
Qualche caduta di stile, alcuni espedienti narrativi ingenui, non minano un racconto teso e affascinante. La reale vicenda di Čikatilo purtroppo è ben più cruda di quella narrata da Smith. L’autore lascia intravedere l’orrore, ma non lo mostra. La realtà è un’altra cosa, questo è un best seller, questo è già un film. E il regista non sarà Cronenberg. Puntiamo sullo sceneggiatore...

sabato 10 maggio 2008

Eastern Promises





Regista che non ama i compromessi, David Cronenberg piega il noir, lo modella sulla sua visione del cinema, che è una visione dell’arte e del mondo. Siamo a Londra. “La promessa dell’assassino” (2007) parla di malavita russa, la Vory V Zakone: il boss Semyon, il figlio Kirill (Vincent Cassel) e il braccio destro del figlio Nikolai Luzhin (Viggo Mortensen). Dove Kirill è il principe debole, legato a Nikolai da un’amicizia su cui pesa l'ombra di un’attrazione anche fisica. Naomi Watts interpreta invece Anna l’ostetrica che assiste alla nascita della figlia di Tatiana, una quattordicenne che per sfuggire alla povertà russa incontra un nuovo inferno. Violenza, droga, prostituzione e la morte che arriva mentre partorisce la bambina, che Anna chiamerà Christine. E il diario di Tatiana, le sue rivelazioni, saranno il sottofondo non musicale dell’intero film.
La carne, un tema dominante nel cinema di Cronenberg, è qui incisa con i tatuaggi che raccontano la storia di chi li porta. Tatuaggi che dicono chi sei, in che prigione sei stato, e a quale organizzazione appartieni. E la carne e il sangue appaiono come la cifra dell’intero racconto. La morte è portata da coltelli, da lame uncinate, il sangue ricopre la pelle, le ferite incidono nuovi segni sopra i tatuaggi.
Londra è fatta da pochi interni, dalla via del ristorante di Semyon, da vicoli bui, da un Tamigi fangoso. Il film raggiunge un equilibrio perfetto, Cronenberg sceglie uno stile dove particolari e inquadrature sono studiate con cura, eppure la macchina da presa non sembra soffermarsi su nulla, non sottolinea una descrizione o un dialogo. Non è necessario. Eastern Promises possiede un ritmo che non lascia tregua allo spettatore pur essendo avvolto da una calma, che diventa inquietudine. Lentamente.
Mi chiamo Tatiana. Mio padre è morto nelle miniere del suo villaggio, perciò era già sepolto quando è morto. Eravamo tutti sepolti lì, sepolti sotto il suolo della Russia. Per questo me ne sono andata”. Lo sguardo di Viggo Mortensen contiene la verità sulle promesse infrante. Ed è veramente un sottile e raffinato filo, quello che lega la promessa al suo tradimento. Non solo per Tatiana.

venerdì 9 maggio 2008

fronte & retro: Astensione


Sulla Fiera del Libro 2008. Torino, Italia.

fronte & retro: Astensione

Si sta come a Natale sull’albero le palle

Che tutto è transitorio è cosa nota. La vita. E’ un fatto biologico, inutile che state a toccarvi o a cercare del metallo in mezzo a tutta questa plastica. L’amore. L’amore dura. A volte una vita intera. A volte meno. Ma l’amore cambia, l’abitudine modifica, lo rende in transito tra stadi diversi. Oppure rimane sempre e per sempre se stesso. E allora il vostro corpo produce endorfine a manetta, peggio che una fabbrica di metamfetamine in Messico. Il lavoro. C’è la flessibilità. Il lavoro è precario. Ci sono pure i film. Anche se Ken Loach aveva detto alcune cose, quando? Nel ’91, nel ’93? E io che pensavo che “Piovono pietre” (K. Loach, 1993) fosse un retaggio dell’Inghilterra thatcheriana. La cosa migliore del lavoro è la frase “Tutti sono utili. Nessuno è indispensabile”. Che ti viene subito voglia di farlo incorniciare ‘sto aforisma. Ti metteresti tu in persona a ricamarlo all’uncinetto. Poi saggeresti la resistenza del vetro e della cornice sulla testa dell’AD. Ma la mercificazione di tutto farà poi bene al lavoro? E non è una domanda che arriva da strane ideologie. Quelle sono spirate prima del tornello tra il vecchio e il nuovo secolo. Probabilmente non avevano pagato il biglietto. O non volevano assistere allo spettacolo. Che poi ti viene ovvio dire ci sentiamo io vado. Eddove vai? Non so, ma qui non sono indispensabile. Che se non sei indispensabile, vuol dire che sei dispensabile, e farti i cazzi tuoi diventa semplice coerenza.

giovedì 8 maggio 2008

Segafantasy



Forse, forze…
Adesso mi lanceranno contro incantesimi, mi colpiranno con armi micidiali, tipo che perdo 10 punti-ferita a botta. Mi fregheranno tutte le carte. Ecchissenefrega.
Sono una persona di buona volontà, sono anche andato a vedere Il signore degli anelli. Mi sono addormentato. Era il primo spettacolo e le poltroncine pure scomode. Sentivo dei rumori in lontananza, credo di aver sognato di dormire dentro una trincea (avevo finito da poco di rileggere Lussu).
La caduta di Malazan, è una lunga una saga fantasy che sarà, nell’intento dell’autore Steven Erikson, costituita da dieci volumi (per ora ne sono stati pubblicati, in originale, sette). Tremate!
Erikson è archeologo e antropologo, belle professioni, perché non approfondirle? E’ vissuto in Inghilterra e ora è tornato a Winnipeg, dove è cresciuto. Il primo volume di questa saga, che comprende anche degli spin-off (tre), è I Giardini della Luna. Erikson usa personaggi ambigui, non ama una netta divisione fra bene e male. Almeno questo… L’epica fantasy è qui ostile al lettore, bisogna avventurarsi nella trama armati di una forte dose di curiosità, e anche di un po’ di masochismo. Indossate l’armatura, prego. Niente è spiegato nei dettagli, ma le vicende assumeranno un significato solo dopo molte pagine. Troppe.
Mi piace Dickens, ma apprezzo anche chi è in grado di usare solo azione e dialoghi per costruire una trama solida. Qui l’azione si potrebbe riassumere in 50 pagine (non ne servono 600). I dialoghi poi sono meravigliosi. Sì, se li leggerete in braille e dopo aver anestetizzato i polpastrelli.
Per circa un terzo del libro sarete in compagnia di K’azz, K'rul, Whiskeyjack, Paran, Ascendenti, Canali, Razze umane e non, e territori vari: le due mappe riportate all’inizio sono solo una piccola parte. La mappa completa si trova in rete. Purtroppo la traduzione rende il libro difficilmente leggibile.
Sarete messi alle corde, e duramente: “il sudore gl’imperniava la fronte”, “la forza che arriva da quei spaventosi canali” e refusi sparsi ovunque come lo stupendo “si affettò a salire le scale” (della serie gradini taglienti). Purtroppo anche sforzandosi di immaginare una traduzione e una stampa meno psichedeliche, il risultato sarebbe comunque un romanzo lungo e noioso. Erikson è un ottimo esponente di un tipo scrittura barocca spintasi oltre, e precisamente oltre il limite della pazienza umana. Ci sono momenti riusciti, questo è vero: anche Erikson in seicento pagine può trovare il ritmo giusto.
Erikson non è China Miéville. E sinceramente sono stufo di sorbirmi otto decimi di carta imbrattata a caso per due decimi di narrativa decente. Se non c’è altro, se questo è il meglio del fantasy adulto, io al massimo rileggo “Perdido Street Station” di Miéville. Oppure leggo le poesie e i racconti di Carver. Ho trovato in libreria un libro di racconti di Richard Lange. Non sta a spiegare, non indugia in descrizioni, però come dire… ecco, sa scrivere, una pagina e sei dentro il racconto. Bella la letteratura, non me la ricordavo.

lunedì 5 maggio 2008

Benvenuti a Deadwood




A Deadwood non esistono leggi. Nel 1876 la città fondata da un gruppo di pionieri sulle Indian Black Hills deve essere ancora annessa agli Stati Uniti. La battaglia di Little Big Horn si è consumata da due settimane: Seth Bullock (Timothy Olyphant) ex sceriffo arriva a Deadwood con il suo amico Sol Star per aprire un emporio.
Inizia così una delle migliori serie televisive degli ultimi anni. David Milch, già creatore di NYPD Blue, porta sullo schermo un western sporco, realistico, lontanissimo dalla visione epica della frontiera di cui Wayne è divenuto il simbolo. Anche se giungono in città Wild Bill Hickock e Calamity Jane (e la storia di Hickock è realmente e tragicamente legata a Deadwood), non assisteremo a duelli sotto un sole accecante. Le dodici parti della prima serie (un totale di oltre 10 ore) sono un lungo film dove personaggi e dialoghi avvolgono lentamente lo spettatore in una storia complessa. Ogni episodio è solo la parte di un affresco più vasto. I colori sono quelli della terra fangosa, dell’atmosfera dei saloon, dei lumi ad olio, del colore ambrato del whiskey, di un posto dove il sole si vede riflesso nelle pozzanghere. Milch crea un wester-noir indimenticabile. Con un personaggio ambiguo, brutale e carismatico come Al Swearengen (Ian McShane), il proprietario di un saloon che è anche il centro dove si muovono le fila di ciò che accade in città. Tra omicidi, corruzione e una violenza che avviene spesso nell’ombra, alle spalle dei personaggi. Come già detto, niente duelli con cappelli portati via da un proiettile. Le pistole esplodono i loro colpi all’improvviso. Quando non cedono spazio alla lama silenziosa di un coltello. E i cadaveri tendono a scomparire nel recinto dei maiali di Mr. Wu Tong, il capo di una piccola comunità cinese.
Anche l’amore, che non può mancare, si manifesta in modo molto poco idilliaco. Spesso è accompagnato dal tradimento, spesso è solo sognato.
Un grande racconto in bilico sulla linea di confine tra generi diversi, tra bene e male, tra quello che si desidera e tra quello che, si sa già, non si potrà mai avere.
Un capolavoro.
(Le prime due stagioni sono disponibili in dvd in lingua italiana. Mentre la terza ed ultima per ora è disponibile solo in originale).

Amici...



“Gli amici di Eddie Coyle” è stato scritto nel 1970 da George V. Higgins ed è stato portato sul grande schermo tre anni più tardi con un film diretto da Peter Yates e interpretato da Robert Mitchum (per il Dizionario del Cinema di P. Mereghetti: “un piccolo gioiello”). Forse anche a causa della sua versione cinematografica il romanzo è rimasto nell’oscurità per anni, non è bastato che Elmore Leonard o Quentin Tarantino rendessero omaggio in modo più o meno esplicito a Higgins, ci sono voluti l’attento lavoro di redattori e traduttori dell’Einaudi per arrivare finalmente a un’edizione italiana di quello che è un vero capolavoro.
Higgins fa muovere la sua storia solo grazie a un uso straordinario dei dialoghi, le azioni compaiono trasformate dalle parole di chi racconta. L’autore è stato giornalista di cronaca nera e poi procuratore distrettuale a Philadelphia: non poco deve aver pesato nella stesura del romanzo la sua dimestichezza con le interviste, gli interrogatori o le confessioni. Eddie Coyle è un pesce piccolo nel mondo della malavita, e ogni tanto una confidenza alla polizia può servirgli a tenersi a galla, ma quando entreranno in gioco la mafia, le pantere nere e gli agenti federali, gli amici di Eddie chiuderanno i conti. Le ultime righe riportano la storia al suo inizio. Polizia, informatori, arresti, telefonate che avvertono di un contrabbando di armi o che decretano la morte di una persona:
“– Qualcuno muore, qualcuno invecchia, arriva gente nuova e la gente di prima sparisce. Tutti i giorni cambia qualcosa –
– E’ difficile accorgersene, però – disse Clark.
– Davvero, – disse il pubblico ministero. – E’ proprio difficile”.
George V. Higgins, “Gli amici di Eddie Coyle”, ed. or. 1970, pp.176, trad. dall’inglese di L. Conti e L. Pissi, Einaudi, 2005.

sabato 3 maggio 2008

J'y suis j'y reste



E anche questa è storia vecchia. Zebda. Un gruppo di Tolosa. In arabo il nome significa burro. E si gioca con la parola beur che indica gli immigrati nord-africani di seconda generazione. Il bel live del 2003 La Tawa contiene anche un DVD, miracolosamente non superfluo, con le riprese di un concerto tenuto a Barcellona, e fa venire voglia di vederli suonare; si chiude grandiosamente con Motives e con il bis. Però dopo il 2003, Magyd Cherfi ha inciso da solista e poco dopo anche i fratelli Amokrane hanno pubblicato un loro disco. Il progetto Zebda è rimasto sospeso, ma non chiuso.
Gli album migliori, oltre al live, sono sicuramente Essence ordinaire del 1998 e Utopie d’occase del 2002. I suoni sono quelli di rock, hip hop, reggae e raï. Impegnato politicamente, questo è un gruppo che merita l’ascolto per la musica e per quello che racconta. Un ragazzo francese mi ha detto che i loro testi gli sembravano stupidi, ma il tizio aveva l’aspetto e i modi di uno che rimpiange Vichy, e non ci ho fatto troppo caso. Poi per dirla con le parole di Cherfi:
et tous ceux qui prenaient la double peine
me disaient tes chansons suffisent à peine
ils me demandaient la langue au chat
qu'est-ce que ça change
quand on appelle un chat, un chat?
On n'est pas des animaux pas des bêtes
on est, on est quoi sur cette planète
on est, on est quand on tourne la tête
bons que pour la défaite

Quando Trujillo era peggio di Darkseid



Ad Aprile è stato pubblicato in Italia il romanzo di Junot Díaz (uscito nell'autunno del 2007), un romanzo d'esordio che rimarrà nella storia. Di sicuro per i premi: Pulitzer, Sargent First Novel Prize e il National Book Critics Circle Award, quest'ultimo da non confondere con il premio della National Book Foundation il cui acronimo è NBA. Ma "La breve favolosa vita di Oscar Wao" è davvero speciale? Secondo me no.
E' meraviglioso. Mescolando SF e fantasy, con piccole citazioni (un glossario permette un rapido orientamento nell'universo metalettario), Junot Díaz racconta la vita di Oscar Wao, un ghettonerd, un ragazzo dominicano obeso, un nerd perso in qualche reame nella Terra di Mezzo o nella Zona Fantasma, che scrive romanzi di fantascienza e fantasy, che passa da Santo Domingo a un quartiere di periferia nel New Jersey. La magia delle Antille, la fuga dei Dominicani dall'isola dopo la caduta di Trujillo, le saghe familiari, Díaz riesce a tenere unita una narrazione che è insieme sincera, epica, malinconica e divertente. Nella tragedia trova spazio anche il sorriso grazie all'ironia dell'autore e a una scrittura ibrida come l'intero romanzo: il linguaggio dei fumetti Marvel o DC, il dialetto dominicano e i termini che arrivano dalla fantascienza o dal fantasy. Partendo dalla persecuzione che sembra affliggere la famiglia di Oscar, il narratore costruisce un racconto che diventa lentamente un affresco familiare e della Storia di Santo Domingo. Le voci, il luogo e il tempo si spostano: Oscar, la sorella Lola, la madre Belicia, gli anni del college, gli anni della dittatura di Trujillo, Santo Domingo, il New Jersey. Le note sono parte integrante della narrazione, la storia allunga la sua trama oltre la pagina, coinvolge il lettore senza fermarsi mai, anche quando la struttura stessa presupporrebbe una pausa. Non siamo a Macondo e non siamo in un libro di DFW. Siamo dentro una storia completamente nuova, che meraviglia!


Junot Díaz è nato il 31 dicembre del 1968, alle sue spalle una storia simile ai personaggi della diaspora dominicana, e con "La breve favolosa vita di Oscar Wao" scrive un capolavoro, un omaggio al suo paese. Un libro a volte amaro e doloroso, ma bisogna ricordare che dove la magia esiste davvero, molte cose possono accadere. Chi riesce a raccontare una materia così vasta, attraverso la storia di un ragazzo, un nerd "afflitto dal peggior caso di 'aficasia' della storia", un tizio che per fare un complimento a una ragazza, le può dire che in un gioco di ruolo avrebbe diciotto punti carisma, chi ha questo dono è uno scrittore geniale.

Il mago dei numeri. Primi.


Il romanzo d’esordio di Paolo Giordano parla di due solitudini programmaticamente inconciliabili: non esistono numeri primi contigui, al massimo vi sono i numeri primi gemelli: “coppie di numeri primi che se ne stanno vicini, anzi quasi vicini, perché fra loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero”. In una metafora questa è la vita di Alice e Mattia, entrambi segnati in modo speculare da un trauma infantile. Il romanzo è stato accolto con favore da pubblico e critica che vi hanno visto il racconto di formazione e la storia di due giovinezze.La cosa che più colpisce nel libro è la totale assenza del tempo e del luogo. Il primo è confinato a puro trascorrere, emarginato negli anni inseriti tra parentesi all’inizio delle sette (numero primo) parti che compongono l’opera. I luoghi sono una materia amorfa, una cristallografia ai raggi X darebbe un risultato desolante. La città è Torino (come si evince da alcuni riferimenti toponomastici), ma potrebbe essere una qualsiasi altra città. Quando si parla di un altro luogo questo diventa un’Università del Nord Europa (neppure una nota del SISMI riuscirebbe a essere più evasiva). L’autore ha voluto in questo modo porre in primo piano la storia intima dei due protagonisti, rendendola in qualche modo assoluta, purtroppo alla lunga questo teatrale deserto che avvolge i personaggi risulta artificiale e tedioso.Un romanzo deprimente, e intendo una depressione quasi fisica non una malinconia alla Silverberg. Un romanzo frutto del lavoro dell'editor, dai dialoghi levigati, dove nel titolo sta la fine, una struttura circolare, in cui la ricerca dell’assoluto conduce al fallimento sia i protagonisti, sia l’autore.

giovedì 1 maggio 2008

Ho delle mele nello stereo




Arriverò tardi. Uncut lo aveva recensito (voto: 3/4) un anno fa. Ma “New Magnetic Wonder” è un disco adatto al clima primaverile che si sta affacciando tra una nuvola e l’altra. Tra un giorno di pioggia e l’altro pure o forse no.
The Apples in Stereo suonano un po’ come Beatles, Beach Boys e Kinks. Probabilmente sono molto pop (peccato, i critici storceranno il naso). L’etichetta sarebbe pop, alt-pop.
Quello che importa è che è un bellissimo, incasinato disco di 24 canzoni tra pop, folk e psichedelia fricchettona user-friendly.
L’uso del vocoder ad alcuni è apparso come segno di scarsa credibilità. Ma i ragazzi di Robert Schneider lo sanno ed ecco la traccia “Vocoder Ba Ba”, che fa da intro a "Radiation" che sembra a tratti una cover di Lennon più qualcos’altro. Oppure il suono anni ’70 di “Same Old Drag”. E sì, trovate di tutto. E’ un miscuglio barocco.
Il disco è divertente, con un'atmosfera calda, a volte nostalgica. Per stare su un prato al sole. Che pacchia!
Per deprimervi, cercato altro, ma in fondo c'è già il nuovo governo che ci penserà.



Piccoli librai non crescono (e c’è un motivo)






Ho frequentato per anni una piccola libreria di Torino (la Cooperativa Studi di Via Ormea). All’epoca pubblicavano una rivista ciclostilata, l’evoluzione grafica e non solo della rivista esiste ancora (LN LibriNuovi). Ora non è più ciclostilata, lo spirito è quello, ma la stampa è digitale.
In quella libreria ho formato i miei gusti di lettore. Erano gli anni ’90. Ho scoperto Ellroy. Ho scoperto Dick. Avevo diciotto anni, no diciannove.
Il vero disastro delle piccole librerie che lamentano una loro lenta scomparsa ad opera dei megastore, delle “grandi superfici espositive” (GSE) e che spesso le piccole libreria hanno problemi, molti problemi e
1. i problemi non dipendono dalle GSE
2. non arriva Mr. Wolf/Harvey Keitel che li risolve.



Tutto quello che segue NON è riferito alla Cooperativa Studi (la Cooperativa Studi è l’eccezione).
Sono entrato in una piccola libreria (aveva 6 vetrine, quindi neanche troppo piccola) e ho chiesto alcuni libri (mi ero preparato una lista a prova di bomba, nel senso “almeno uno lo becco”).
Un libro era della Mondadori, uscito da poco più di una settimana. Il libro non risultava né in magazzino, né in arrivo. Evvai!
Un libro era in realtà uno di quei DVD+Libro della Feltrinelli, anche questo recente, ma non troppo. Risultato? Come sopra.
Un libro era di Michael Moorcock, un classico del fantasy. Da qualche parte ho letto che il fantasy vende, allora ho pensato: “questo lo avranno”. Seee… troppo facile. Niente. Però il libro, un tascabile del 2007, un tempo è passato per la libreria, ma ora bisogna riordinarlo. E Tolkien? Tolkien ce l’hanno. Ho capito perché a Moorcock non piace Tolkien: quando va in libreria i libri di Tolkien li trova, quelli che scrive lui no.
Un libro ecc. ecc. (scene simili per 8 titoli).
Alla fine tiro fuori la domanda di riserva.
Io: -Avete per caso- sì perché il caso è importante lo diceva Monod in un libro che in ‘sto cazzo posto di sicuro non hanno- ricominciamo…
Io: Avete per caso un libro di Soseki? (Le mostro un foglietto su cui ho scritto il nome)
Libraia: Quale titolo?
Io: Qualsiasi (voce rotta dalla disperazione)
Libraia, dopo aver battuto sui tasti del computer: Non mi risulta. E’ sicuro che il nome si scriva così. Aspetti che controllo…
Io: No, ma guardi si scrive proprio così, Esse-O-Esse-E-Kappa-I.
La libraia fa finta di non sentire e controlla, d'altronde lei è la professionista, io sono solo un lettore.
Viene fuori che questo tale Soseki si scrive Soseki.
Libraia: No, mi dispiace non abbiamo nulla.

Evvabbe’ è un classico della letteratura giapponese, e noi siamo in Italia, che culo!
Ma gli altri libri? E non erano libri di editori proprio piccoli. Mondadori. Adelphi. Fanucci. Neri Pozza. Einaudi. Cose così, insomma.
La piccola libreria non li aveva. Cosa devo fare?
E poi mi dicono che le piccole librerie falliscono: ma se sono come questa emmenomale! Festeggiamo!

Il giorno dopo questa avventura educativa, entro alla FNAC, è vicino a casa, vado a piedi e non inquino. Esco con:
un libro della Mondadori,
uno dell’Adelphi,
uno della Fanucci,
uno della Feltrinelli,
uno della Nutrimenti
e anche con un CD.
Piccolo è bello. Fosse vero… o almeno quasi sempre vero.
Addenda:
Le librerie indipendenti sono favolose, ma solo quando chi avete di fronte è un buon lettore, una persona per cui la lettura sia una passione. Conosco librerie così, ma ho avuto fortuna.
Per queste librerie la distribuzione creativa o "ricreativa" degli editori, i megastore e la mancanza di una politica a sostegno del libro sono problemi con cui si fanno i conti ogni giorno o a fine mese.